Gabo, un bambino nato in un paese della costa caraibica – Aracataca, Colombia – che ha trasformato la letteratura occidentale del Novecento. “Un essere superiore”, “vorresti continuare a leggerlo”, “il primo classico vivente che ho letto”: persone comuni e non, come l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, con la famiglia (la sorella Aida, il fratello Jaime) raccontano García Márquez, insieme a lui stesso, che in prima persona rivive nelle interviste d’archivio. Gabito, o Gabo come recita anche il titolo del documentario di Justin Webster, un soprannome familiare per mettere subito a fuoco il profilo dal cuore intimo del racconto, concentrato sulla questione dell’infanzia. Per lui, come per molti altri, quella fase della vita è stata capace di marchiarlo per sempre: fu quello il momento più determinante e formativo della psiche e della poetica di Gabriel García Márquez.
Aratacata “era un paese dove succedevano molte cose”: un piccolo borgo colombiano sconosciuto, eppure, negli anni in cui Gabo era bambino (nasce il 6 marzo 1927) un posto che ha conosciuto un piccolo boom economico, per commerci di frutta, e che di conseguenza concentrava gringos, giamaicani, gente da tutti i Caraibi, con annessi risse, bordelli, violenza; qui Gabo ha trascorso i suoi primi nove anni di vita. Gabriel era figlio di una donna di buona famiglia – Luisa – e di un avventuriero, seduttore, nordcolombiano – Gabriel Eligio – profilo poco rassicurante, quest’ultimo, che li fece subito allontanare dalla casa dei nonni materni, dove il poeta è nato. Trasferitisi a Barranquilla, Luisa ha un altro bambino: se ne va con il secondo, lasciando con i nonni il piccolo Gabriel fino a nove anni. Come dirà successivamente: “Tutti i giorni della mia vita mi sveglio con l’impressione, vera o falsa che sia, di essere a casa. Non di esserci tornato, ma di essere lì, senza età” (estratto da Odor di Guayana, intervista a Márquez dell’amico Plinio Mendoza).
Alla famiglia dei nonni García Márquez era fortemente affezionato, ammirava il nonno, gli ha sempre parlato come fosse stato un adulto, raccontandogli passaggi della guerra civile che in prima persona aveva vissuto, come amava dire lo stesso poeta. Márquez era affascinato dalla vita del paese – rimase incantato per un prestigiatore arrivato con il circo – ma, al tempo stesso era impaurito dalla sua difficile esperienza personale, probabilmente pensava “di essere stato sepolto a casa di suo nonno”. Un’infanzia contemporaneamente magica e scura. L’ingresso in casa con la mamma e il papà, a nove anni, a Sucre, “il paese più sinistro e cupo nelle sue prime opere”, fu un periodo incredibilmente povero – il padre faceva l’omeopata e viaggiava per lunghi periodi e Gabriel aveva con lui un rapporto di controllata distanza, contrariamente al grande legame dimostrato per sua madre, una donna a cui “piaceva che usassimo la parola giusta”, ricorda Aida. Dalle cure di una mamma che teneva ad un vocabolario corretto a un bordello il passo non fu così lontano: Gabriel García Márquez a dodici anni fu iniziato da una delle prostitute della casa chiusa di Sucre, episodio sempre raccontato, nella maggior parte delle interviste, come una cosa meravigliosa e di cui ringraziava il padre. Eppure, c’è stata un’intervista – precisa il biografo – in cui disse che fu la cosa più terrificante della sua vita. In questo clima, il nonno viene a mancare e da qui il suo perenne terrore per la morte.
Márquez, tra sesso precoce, morte improvvisa del nonno e una casa in cui ogni anno nasceva un fratello – 11 complessivamente – poco più che adolescente s’imbarca per Bogotà, per andarsene, in un viaggio fluviale di quasi due settimane lungo il Rio Magdalena, subito metafora della strada che prendeva per lasciare la famiglia, la cultura conosciuta fino a quel momento, verso lidi lontani freddi, ostili, desolanti – essenziali per la sua vocazione letteraria: la solitudine e la nostalgia. I “lidi” sono quelli della capitale della Colombia, da dove inizia a prendere forma il García Márquez immenso poeta, nonché controverso profilo para politico nella Cuba di Fidel Castro e Ernesto “Che” Guevara. Era il 1943, un pomeriggio alle 4, alla stazione di Sabana.
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