LECCE – Il senso della coppia forse l’ha potuto far proprio mutuato dallo sguardo di un maestro, Pupi Avati, di cui è stato assistente alla regia per Un matrimonio; e il tema della malattia l’ha già affrontato con il cortometraggio L’ultimo cielo: lì era la SLA, come anche in Giorni Felici, in anteprima tra gli Eventi Speciali del Festival del Cinema Europeo.
Lui è Simone Petralia, che affida la sua storia – che ha anche sceneggiato, oltre che diretto – a una somma Anna Galiena (Margherita) e al recitato – quasi esclusivamente ancorato alla mimica dello sguardo – di un commovente Franco Nero (Antonio), lei attrice di fama prossima a partire per un grande progetto americano, lui il suo ex marito e padre di suo figlio Enea (Marco Rossetti), musicista insoddisfatto.
C’è un nido, la bella casa di Roma di Margherita, scrigno di ricordi: con il sogno americano all’orizzonte, l’attrice viene cristallizzata in questo suo appartamento, fino all’immobilità, dalla malattia, una forma di sclerosi che chiama Antonio, ormai fuori dalla sua vita quotidiana, a tornare per occuparsi di lei, nonostante la separazione: lui, professionista insoddisfatto, come il figlio, ma regista.
La sofferenza si fa compagna della tenerezza, per una necessità pragmatica propria del dramma, che costringe Margherita e Antonio a tornare insieme nell’essenza del concetto di coppia, per scrivere il loro finale, un “…e vissero felici e contenti” ribaltato, ma profondamente loro.
Lo zucchero dell’esistenza è lontano dal film di Petralia, che con onesto realismo mostra la malattia: sceglie dei piani spesso ravvicinati sui visi dei protagonisti, perché lì spiccano gli occhi, e nello sguardo vive l’essenza dell’emotività, del ricordo, e della consapevolezza.
Signor Nero, la sua recitazione è affidata ai silenzi e ancorata agli sguardi: come ha lavorato su questa intensa espressività, che comunica tutto senza le parole, o quasi?
Lo richiedeva il personaggio, un po’ timido, perché si sente in imbarazzo in questa casa che non lo accetta, perciò non ha molto dialogo: pertanto, uno deve lavorare con la faccia e io ci sono abituato da una vita; ho fatto un film, anni fa, muto, un capolavoro, Angelus Hiroshimae, non ha una parola, è basato tutto sul volto: ripeto, per me anche per Giorni Felici è stato naturale.
Quando le è stato proposto il soggetto di questo film, delicato, particolare, ha avuto paure, dubbi, stimoli?
Sì, degli stimoli. Questo giovane regista da anni mi stava appresso perché voleva facessi il film, ma non aveva la disponibilità economica: gli dissi di essere interessato e devo dire che lui è stato molto insistente, ha lottato fino in fondo pur di fare il film. Mi piace aiutare i giovani, tutta la vita ho fatto questo: ho fatto debuttare molti registi, forse perché anch’io ho un figlio regista e so quello che ha sofferto, e ancora soffre, per i suoi progetti, e allora mi sono messo nei panni di questi giovani che soffrono pur di fare il proprio film. Simone è stato bravo ad aspettare, perché poi è andata bene così.
Un film come questo affronta tematiche importanti, come la malattia, che si tratta di più nel cinema attuale, e qui c’è anche un confronto tra generazioni: i genitori, il figlio. Come s’è posto rispetto alla necessità dei giusti equilibri per un tema così fine?
Ho avuto esperienze vicine, per cui è stato facile farlo, proprio per certe esperienze della mia vita. Mia moglie, per esempio, Vanessa Redgrave, ha rilasciato un’intervista alla Rai – un messaggio mostrato mentre Nero era ospite, domenica 5 novembre 2023, alla trasmissione tv Da noi… a ruota libera, ndr – per cui pare abbia fatto piangere l’intera Italia: lei, in sostanza, dice ‘…io sono arrivata alla fine, ma tu, che sei più giovane di me, devi vivere a lungo’. Noi due abbiamo avuto dei momenti belli e non belli, ma anche fantastici, e lei ha fatto un discorso incredibile; io penso che l’amore non finisca mai, quando c’è un vero amore. C’è stato un grande amore tra mia moglie e me, poi una separazione, e poi ancora un ricongiungimento, perciò è un’esperienza che ho fatto nella vita, dunque nel film mi è stato facile.
Il personaggio che interpreta Galiena ha una carriera che, per il sopraggiungere della malattia, vede la professione artistica interrotta per sempre: per la vicinanza di mestiere con quella dei personaggi, ha fatto una riflessione su questa possibilità nella vita reale?
A noi artisti una cosa del genere leva la vita. Bisogna avere forza e essere, in un certo senso, anche filosofi, non è facile, ma un po’ di filosofia non sarebbe male.
Qual è il suo personale punto di vista sul libero arbitrio verso la scelta di morire? Il suo personaggio fa una scelta: lei cosa ne pensa?
Ultimamente mi avevano offerto un film spagnolo, la storia di una donna malata terminale che decide di andare in Svizzera per la morte assistita, e il marito, per il grande amore, le dice: ‘se vai tu, vengo anch’io’. Non l’ho accettato alla fine, perché il regista è un po’ un presuntuosetto. Questo per dire: lo so che la questione è qualcosa contro la religione, che dice che il corpo debba morire naturalmente, ma sono scelte particolari; non so sinceramente cosa farei ma posso capire la scelta, sì posso capirla. Ricorda Million Dollar Baby? Ecco, Clint Eastwood stacca la spina alla ragazza, perché ha capito che ormai… ‘è morta’: è quello che faccio io in questo film.
In questo discorso c’entra anche la religione: lei che rapporto ha con la Fede?
Ho un buon rapporto, non sono praticante ma sono religioso: credo, sì credo. Io mi faccio sempre l’esame di coscienza, se ho fatto del male devo chiedere scusa, in questo sono abbastanza umile. Io lavoro da 58 anni con un Villaggio di Tivoli, il ‘Don Bosco’: ho conosciuto un pretino altrettanti anni fa, mi sono innamorato del progetto e gli sono stato vicino, quando ancora non ero nessuno, e fra qualche giorno farò lì una proiezione di Havana Kirys, girato a Cuba quattro anni fa, per raccogliere soldi per il Villaggio. Mio figlio, i miei nipoti, sono battezzati lì e la sera di Natale partecipo sempre alla messa con i ragazzi del Villaggio, l’unica volta in cui vado davvero in chiesa: ho un buon rapporto con la religione, non quella ipocrita, non quella fanatica.
Nell’ultimo film che ha diretto c’è proprio Dio nel titolo, L’uomo che disegnò Dio.
Sì, ed è stato selezionato ai Golden Globe.
Lei ha una lunghissima carriera: oggi cosa la persuade per accettare un film? Per questo film ha detto che il giovane regista l’ha inseguita.
Un tema, una sceneggiatura che piace: dipende tutto dalla storia. Tra poco andrò in Australia a fare un film, la storia di una famiglia italiana a Melbourne, interpreto il nonno: racconta il rapporto tra lui e il nipotino, sono due belle generazioni. Non è dietro l’angolo l’Australia, ma mi piace la storia, allora vado: io devo avere entusiasmo, altrimenti smetto; il giorno che non avrò più entusiasmo smetterò; noi attori siamo come i bambini. Io ho fatto solo 240 film e… continuo per l’entusiasmo, che non mi manca.
È uno dei pochi attori italiani di caratura internazionale, poco giustamente celebrato in Patria. Come trova lo stato di salute del cinema italiano?
È molto provinciale l’Italia. Il cinema, quello vero che c’era in passato, adesso non c’è: perché allora c’era un vero produttore che credeva nel progetto; il regista andava dal produttore, gli parlava, si faceva una coproduzione con Francia, Germania o Spagna, e il film si faceva. Mentre oggi chi comanda sono le televisioni e se vuoi fare un film devi avere almeno un diritto d’antenna, e chi decide? Un impiegato televisivo. L’autore non ha più la libertà di fare completamente il suo lavoro, resta sempre un po’ condizionato. Io non ho mai amato la televisione, guardo solo lo sport e qualche volta il telegiornale: sono uomo di cinema. E cos’è per me il cinema? Come una grande città, dove vivono persone di diverse razze e colori e ognuna ha la propria casa e i propri sogni: il cinema continuerà a esistere finché la gente continuerà a sognare; cinema vuol dire anche libertà, perché nei Paesi in cui non c’è libertà non c’è cinema.
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