Come si realizza l’impossibile? Oltrepassare i limiti imposti dall’uomo per arrivare lassù, dove la luna riposa sola da sempre. La determinazione degli americani, intenzionati a sconfiggere l’Unione Sovietica sul campo spaziale, ha portato l’essere umano all’attraversata più incredibile di sempre. Un sogno teorizzato dai fisici, ideato dagli ingegneri, realizzato dagli astronauti. Ma non solo. Perché per renderlo possibile, è servito prima di tutto venderlo a un pubblico non sempre interessato al “prodotto” in questione. E allora ecco che Fly me to the moon, brillante commedia in sala con Eagle Pictures dall’11 luglio 2024, racconta il ruolo, parzialmente ma possibile, giocato da una spin doctor che avrebbe aiutato la NASA a riaccendere il desiderio della luna nella popolazione. Il film infatti è basato sulla storia di Bill Kirstein e Keenan Flyn, ma è giusto uno sprint iniziale da cui si dipana una vicenda fittizia.
Nulla di vero dunque, non ufficialmente, ma è un’idea avvincente che trasforma la corsa all’allunaggio in un episodio di Mad Men, con Scarlett Johansson nella parte della scaltra pubblicitaria, pronta a tutto. Non stona così l’idea di pubblicizzare il film in Italia con una televendita di Mastrota. Vendere la luna non è faccenda da tutti i giorni, e in questo gioco tra realtà e finzione – in cui fa capolino qualche immagine d’archivio – il regista Greg Berlanti trova la chiave nella chimica tra i due protagonisti.
A pochi mesi da Tutti tranne te – il film campione d’incassi con Sydney Sweeny e Glen Powell – Fly me to the moon regala al grande pubblico la seconda coppia romantica dell’anno, protagonista di un’opera fatta per piacere a tutti ma non per questo priva di carattere. Accanto alla Johansson troviamo il direttore del programma di lancio spaziale, interpretato da Channing Tatum, che si contrappone all’implacabile spin doctor in uno scontro ideologico destinato alla romance.
È una prospettiva nuova quella scelta da Berlanti per raccontare l’allunaggio, e forse non è nemmeno questo davvero il tema. Più che lo sforzo muscolare e intellettivo solitamente esaltato nelle pellicole dedicate all’allunaggio, Fly me to the moon sfrutta il proprio plot high-concept per giocare sulle teorie cospirazioniste e raccontare il capitalismo come una grande pubblicità. Assistiamo a conversazioni surreali e prese di posizioni senza senso, come la volontà di mandare in onda un video fake dell’allunaggio nonostante gli astronauti siano davvero atterrati sul suolo del satellite terrestre. Per controllare la situazione, per raccontarla a dovere affinché resti impressa nella memoria di tutti. Per venderla bene, in altre parole.
C’è la commedia farsesca, un buon gioco di satira e persino qualche momento thriller, credibile nonostante la cornice da screw-ball comedy che funziona, e che per fortuna è arrivata in sala dopo i primi piani che volevano questa commedia per il solo streaming. Sul grande schermo, invece, funziona, soprattutto grazie a un cast che si staglia deciso nella cornice di assurdità e imprevisti che delineano le vicende.
Quello tra i personaggi di Tatum e Johansson è un balletto fatto di schermaglie. Rappresentano due idee opposte: da un lato la volontà di realizzare una grande conquista, dall’altra la convinzione che importi solo saperla vendere. Ovvero, renderla possibile agli occhi di chi guarda. E allora ecco gli orologi al polso degli astronauti, per farli avvicinare al pubblico, per creare una relazione e riportare il sogno della luna nella mente delle persone.
Una dedica sentita, e imprevista, a una tra le prime cospirazioni moderne, che vorrebbe addirittura il filmato dell’allunaggio girato da Stanley Kubrick in uno studio di Hollywood. E in un certo senso, una dedica alla ricostruzione, al cinema, che vende il sogno meglio della realtà e crea un universo parallelo, in cui l’allunaggio messo in scena è più vero di qualsiasi verità.
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