FEDERICA MARTINO


Biuti quin Olivia Boom di registe al Torino Film Festival. E una buona dose di film sugli anni ’80. Dopo Lo scippo ecco Biuti quin Olivia di Federica Martino, la storia di due adolescenti nella periferia di Roma, tra padri violenti e sacrosante ribellioni. Ma con il mito, tipicamente eighties, di Grease. L’Olivia del titolo è infatti Olivia Newton John, che la tenera Lilli considera un inarrivabile modello. Al punto da dedicarle un piccolo concorso tra le ragazzine del quartiere per l’elezione di una reginetta di bellezza, una beauty queen appunto.
L’autrice del film, un articolo 8, è Federica Martino. Figlia d’arte (suo padre è Sergio Martino, quello di Zucchero, miele e peperoncino), disinvolta nel raccontarsi, formata ai metodi all’americana della New York University. Biuti Quin (guarda il sito) è il suo primo film, ma ha già avuto dal Ministero i finanziamenti per un corto intitolato Sputnik che farà prossimamente.

E’ stato importante l’articolo 8?
In Italia l’articolo 8 è l’unico modo per fare cinema indipendente, perché se hai i finanziamenti il produttore ha meno interesse a dirti cosa devi fare o non fare. Per me è fondamentale lavorare a modo mio, per esempio preferisco i talenti ancora da scoprire agli attori famosi. Il cinema indipendente è meno contaminato da regole.

Ma ti ha creato anche qualche problema?
Il problema è che al ministero c’è molta burocrazia e poca comprensione dei tempi del cinema. E’ difficile pianificare tutto e seguire alla lettera i piani. Magari pensi di girare in una location e poi ti rendi conto che dovrai costuire quell’ambiente in teatro. Devi riuscire a navigare in mezzo a questi problemi. I tempi, ad esempio, sono stati molto lunghi: in tutto più di due anni: ne ho approfittato per provare al massimo con gli attori in uno scantinato.

Come hai trovato la protagonista, Carolina Felline?
Nel solito modo, tramite un agente e dei provini. Poi abbiamo lavorato sul personaggio a lungo, per tre mesi. Carolina ha bisogno di essere rassicurata e guidata. Abbiamo immaginato varie situazioni, anche non necessariamente legate alle scene del film: il pranzo di Natale di Olivia, la sua rabbia di quando viene rinchiusa in una stanza da sola in collegio. E’ servito a tirare fuori la violenza e la rabbia che le servivano e lo stesso è accaduto con Manrico Gammarota, che fa suo padre. Alla fine le scene di violenza tra padre e figlia erano talmente realistiche che qualche volta siamo finiti davvero al pronto soccorso.

Perché hai scelto una storia di emarginazione e violenza familiare. Nasce da qualche esperienza diretta, da un interesse sociologico?
No, ma mi fa piacere sentirmi fare questa domanda. Credo di essere diversa da molti autori della mia generazione, più o meno trentenni, che tendono a raccontare esperienze autobiografiche, vicine al loro modo di vivere e alla loro sensibilità. Io amo esplorare.

Perché ti interessano gli anni ’80?
Mi piaceva mostrarli in tutto il loro orrore. E poi sono partita da un ricordo: una ragazzina sospesa a scuola per due settimane perché faceva ascoltare alle compagne la colonna sonora di Grease. Venne considerata un’istigazione al consumismo.

Consideri il tuo film come una favola?
E’ una definizione che mi piace molto. Anzi, sono contenta che non sia vietato ai minori di 14 anni, perché credo che si rivolga anche ai ragazzini.

autore
22 Novembre 2001

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