Un romanzo di successo, addirittura leggendario, come American Pastoral di Philip Roth, portato finalmente sullo schermo da Ewan McGregor. Sì, proprio l’attore scozzese di Trainspotting, che ha deciso di esordire nella regia cucendosi addosso il personaggio dello “Svedese” Seymour Levov, biondo, alto e atletico ebreo americano erede di una avviata fabbrica di guanti nel New Jersey, adorato da tutti. Eroe del college per le sue imprese sportive, sposa la reginetta di bellezza Dawn (Jennifer Connelly): ma è proprio da questo matrimonio “perfetto” che nascono i guai. La figlia Merry (Dakota Fanning), bambina balbuziente e adolescente problematica, aderisce alle idee della contestazione fino a entrare in clandestinità dopo un attentato dinamitardo all’ufficio postale in cui perde la vita un uomo.
Vincitore del Premio Pulitzer, American Pastoral è un romanzo – in Italia edito da Einaudi – sull’impossibilità dell’american dream e su un rapporto padre-figlia a tratti morboso. Ma per McGregor, che ha incontrato la stampa in una conferenza stampa decisamente in overbooking, con molti cronisti e blogger rimasti in piedi, è stata soprattutto l’occasione per affrontare il tema del conflitto generazionale tra i genitori cresciuti negli anni ’50, dopo la fine della seconda mondiale, e i figli che sposano idee radicali e rifiutano la guerra del Vietnam e l’establishment. “Il mio film esplora l’America post-bellica dove le speranze e aspirazioni dei padri entrano un rotta di collisione con la generazione successiva. Anche in quel momento, come oggi, i neri si ribellarono, ci furono sommosse, e anche episodi di terrorismo, ma non era mia intenzione alludere all’oggi”. Piuttosto fedele alla trama del romanzo, il film, che fa anche uso di spezzoni di repertorio, se ne discosta sostanzialmente nel finale, drasticamente cambiato per mostrare l’impossibilità dello Svedese di superare il tragico destino della figlia.
McGregor, che questa estate era sul set per girare l’atteso seguito di Trainspotting, rivela di aver letto questo romanzo straordinario solo al momento di fare il film. “Il mio primo approccio è stato con l’adattamento di John Romano, ma mentre lo leggevo mi sono messo a piangere e vi assicuro che non mi capita spesso. Forse perché sono padre di quattro ragazze e mi sono immedesimato nei sentimenti dello Svedese, un uomo che perde l’amata figlia e non ha idea di dove possa essere e di cosa le sia accaduto, sa che forse è colpevole e potrebbe passare il resto della sua vita in prigione”. Infine sul suo stile rivela di aver “rubato” il mestiere un po’ a tutti i registi che ha conosciuto. “In 25 anni ho lavorato con tanti grandi e anche con quelli meno bravi. Da tutti ho preso qualcosa perché l’attore si trova in una posizione privilegiata e capisce che non c’è un modo giusto e un modo sbagliato di dirigere. Boyle è stato il mio primo regista e la cosa più importante me l’ha trasmessa lui: gli attori vogliono essere guardati, ascoltati e compresi. Spero di averlo fatto anch’io con Jennifer e Dakota. Comunque direi che dirigere un film vuol dire soprattutto gestire le paure di tutti”.
American Pastoral, primo evento dell’XI edizione della Festa del Cinema di Roma (le anteprime per il pubblico sono già tutte esaurite), sarà in sala dal 20 ottobre con Eagle Pictures che l’ha acquistato ancora in fase di sceneggiatura credendo fortemente nel progetto. L’accoglienza della critica anglosassone, tuttavia, non è stata molto positiva: i principali recensori, che l’hanno visto al Festival di Toronto, hanno accusato il film di essere piatto e poco profondo.
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