Everything Everywhere All At Once (leggi l’articolo) ha incassato quattro volte il proprio budget, ottenuto 11 nomination agli Oscar, 2 Golden Globe e il generale entusiasmo della critica. Il film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert – detti I Daniels – ha superato ogni aspettativa. Everything Everywhere All At Once torna al cinema il 2 febbraio con I Wonder Pictures ed è l’occasione per scoprire come un film da appena 14,3 milioni abbia potuto sconquassare, prima e meglio della Marvel, il destino del multiverso come racconto cinematografico.
Per capire il lavoro della coppia di registi basta una scena: Waymond afferra un marsupio e parte all’attacco. Siamo nella prima parte di film. Il marito di Evelyn è sostituito dalla versione di sé proveniente dall’Alphaverse, dove le persone hanno imparato a saltare da un universo all’altro ottenendone le abilità. Per dirla con Matrix, quel Waymond sa il Kung Fu.
In un’inquadratura colpisce con cinque mosse differenti due agenti di polizia. L’azione non è interrotta e vive del movimento degli attori, come nei Kung Fu Movies di Hong Kong. “È così che fai un classico film di Kung Fu”, ha raccontato al “The Hollywood Reporter” Daniel Scheinert, “lo stile di Hong Kong è quello di riprendere in ordine, uno scatto alla volta, una telecamera alla volta”.
Per comporre il cast del film, i Daniels si sono affidati a figure note del cinema d’azione orientale. Evelyn è Michelle Yeoh, popolare attrice malese di pellicole come The Heroic Trio e Wing Chun. La Yeoh ha realizzato la quasi totalità delle scene di combattimento di Everything Everywhere All At Once – è la prima donna asiatica a essere candidata agli Oscar -, ed è stata addestrata assieme al resto del cast da Li Jing, campionessa mondiale di Wushu.
In due scene memorabili, i nostri eroi affrontano due poliziotti interpretati da Andy e Brian Le, i volti del “Martial Group” responsabile delle coreografie del film. L’utilizzo di oggetti comuni come arma si ispira a Jackie Chan, amato dai fratelli Le, veri conoscitori del genere divenuti famosi con un canale YouTube dove ripropongono le azioni più folli di questo cinema.
Il Kung Fu Movie, di cui ricordiamo nomi illustri come Bruce Lee, si compone di modi e tecniche di ripresa che ne hanno deciso lo stile e permesso il successo.
Il combattimento con il marsupio di Everything Everywhere All At Once ha inizio secondo questa tradizione. Dal primissimo piano sugli occhi di Waymond ci allontaniamo lentamente. Si chiama “momento di realizzazione” e mette in chiaro i due soggetti: l’eroe e il campo di battaglia.
Waymond sgancia il marsupio dalla cintura, il dettaglio trasforma l’arma in una spada prima di tornare sull’eroe. La sequenza si chiude in pieno stile Bruce Lee, bloccando il marsupio in spalla e richiamando I 3 dell’operazione drago.
Non è citazionismo di passaggio. Everything Everywhere All At Once visualizza il multiverso secondo tecniche, generi e modi del racconto cinematografico.
I momenti action del film guardano a Hong Kong e formano un universo a sé. Quando invece visitiamo il mondo in cui Ratatouille è un procione, ritroviamo i colori del Punch Drunk Love di Paul Thomas Anderson, in quello degli Hot Dog al posto delle mani sembra Carol di Haynes, fino alle atmosfere da In the mood for love che dominano l’universo in cui Evelyn è una star del cinema.
Quando non è un genere o un film a comporre le differenze tra universi, viene in aiuto il formato dell’immagine. Le proporzioni dell’inquadratura fanno da guida nei multiversi: il passato alternativo è in formato Academy (o 4:3), il presente si stringe in 1:1,85, mentre l’action si apre a un widescreen ampio.
La percezione di universi paralleli passa per le forme del cinema. Il multiverso dei Daniels si veste di film e i suoi attori attraversano modi e possibilità mantenendo intatta la ricerca di verità dei personaggi: “just because reality doesn’t come pre-loaded with meaning doesn’t mean that we can’t create truth in our own lives”.
Il cinema di Hong Kong è strumento alla pari dei colori di Anderson e Wong Kar Wai. Il primo multiverso è quello dello schermo, dove le possibilità dell’esistenza si affastellano in forme di genere, dove la vita è sempre un “come se”. Il multiverso come metafora si compie così, forse per la prima volta, ma in realtà come richiamo a ciò che il cinema realizza.
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