Enrico Borello: “Ho imparato che i grandi attori non sopravvivono, rilanciano”

Enrico Borello racconta 'La città proibita', il rapporto speciale con Gabriele Mainetti e il suo percorso tra cinema, romanità e crescita personale. "Sul set ho tirato fuori un lato di me che tenevo nascosto, qualcosa di personale. Un’esperienza intensa, che mi ha fatto crescere ancora di più"


Enrico Borello, classe 1993, è al cinema dal 13 marzo con La città proibita, nuovo film di Gabriele Mainetti. Romano fino al midollo, innamorato di una città che “cambia troppo, perdendo radici”, Borello ha mosso i primi passi alla scuola Gianmaria Volonté dopo una laurea in Riabilitazione psichiatrica. Un cammino solo apparentemente diverso, specifica, perché “la psichiatria ti sceglie, come il cinema”. Un destino nato da bambino, tra trailer in TV e film imparati a memoria con il fratello, come Blues Brothers e Full Metal Jacket, visti “decisamente troppo presto, a 12 anni”. In La città proibita interpreta Marcello, un giovane romano chiuso nel microcosmo del ristorante di famiglia. “Prima di iniziare ero pieno di convinzioni, il classico giovane attore che crede di avere tutto chiaro. Questo progetto mi ha messo alla prova, mi ha fatto crescere”, confida, descrivendo un regista esigente con cui ha condiviso “un dialogo profondo e trasformativo”.  Sul set, Borello ha trovato ispirazione anche nei colleghi: la forza silenziosa di Yaxi Liu, la tenacia di Giallini e Ferilli, che come i grandi attori del passato “non sopravvivono, rilanciano”.

Ciao Enrico, come è andata questa prima settimana nelle sale con La città proibita?

È stata bella, devo dire, con molti pareri positivi. Ogni tanto do un’occhiata ai social, perché voglio capire cosa pensa la gente.

E rispondi? Come vivi il rapporto coi social in questi casi?

No, no, non rispondo. La vivo con leggerezza, a volte mi diverto persino. I commenti mi fanno ridere. Per esempio, uno ha scritto che il mio personaggio è completamente inutile fino alla fine del film. Ci sono cose che mi fanno sorridere molto.

Bisogna prenderla così, con leggerezza?

Sì, sempre. Va bene così.

Allora, partiamo da Marcello, il tuo personaggio. Nel film è lo sguardo dello spettatore. Permette di osservare questo mondo in cui improvvisamente irrompe il fantastico, le arti marziali, la vendetta. Ti sei sentito così anche tu sul set, osservatore di un grande spettacolo?

Marcello inizia a osservare dopo aver vissuto a lungo chiuso nella sua “prigione”. Vede le cose senza capirle del tutto e si evolve, quasi inconsapevolmente, uscendo dal suo guscio. Io l’ho vissuto in modo simile, perché quando ho iniziato questo progetto ero pieno di convinzioni. Ero come un giovane attore rampante che crede di avere già tutto chiaro, un po’ come i sedicenni che pensano di aver capito la vita. Ripensandoci, vedo quanta sfrontatezza avevo. Non l’ho persa del tutto, è parte di me, ma questo progetto mi ha aperto gli occhi. Lavorare con Gabriele in un contesto così grande mi ha messo alla prova in modo positivo. Posso dire di aver fatto un passo avanti nella mia crescita, e questo mi spinge a voler crescere ancora di più. È una cosa molto bella, secondo me.

In un’intervista, Gabriele Mainetti racconta di essersi innamorato prima di tutto della tua persona. Ha citato Bresson, che diceva: “Non mi interessa quello che le persone mi mostrano, ma cosa mi nascondono”. Raccontami il vostro incontro

È stato un incontro speciale, un vero spartiacque. Ci siamo conosciuti a una festa dopo una proiezione alle Giornate degli Autori. Parlando, mi ha detto: “Ti ho visto in Settembre”. Ricordo che giocherellavo con una collanina di mia nonna, e lui mi osservava attentamente. Non so perché, ma ho pensato che ci saremmo rivisti. Infatti, è successo. Poi sono arrivati i provini, prima per un film che non si è fatto, poi per questo. Tra noi c’è un dialogo profondo, ci siamo confidati molto. Lui ha tirato fuori un lato di me che tenevo nascosto, qualcosa di personale. Ha insistito finché non ho ceduto, aprendomi in una telefonata. È stata un’esperienza intensa, ma non entro nei dettagli.

Racconti anche che lavorare sul set con lui è molto impegnativo

È esigente e cura ogni dettaglio, due lezioni preziose. Per un giovane arrogante come me può essere seccante: l’arroganza è una difesa, a volte sana, in un mondo che ci frustra. Ma con Gabriele devi metterla da parte e abbandonarti alla sua guida. Lui vuole che l’attore si conceda, perda controllo, e questo è complicato ma bellissimo, specie per un giovane. Lo sogni, poi quando ci sei dici: “Cazzo, ora devo farcela”. Se un regista ti chiede tanto ma non ha coraggio non vai da nessuna parte. Gabriele invece ti porta fino in fondo. Quando hai accanto qualcuno che vuole tanto da te e ha la forza di portarti fino in fondo, è diverso.

Come hai incontrato il cinema nella tua vita?

Grazie a mia madre, che mi portava al cinema da piccolo. Mi piaceva da morire, ero fissato con i trailer in TV. Con mio fratello guardavamo film tipo Blues Brothers, che sapevamo a memoria: lui faceva Dan Aykroyd, io John Belushi. Poi mi ha fatto vedere cose più toste, come Full Metal Jacket a dodici anni. Li ho rivisti mille volte. La mia famiglia diceva: “Con l’arte non si mangia”, quindi ho sempre visto questo mestiere con pragmatismo, ma c’è anche l’aspetto artistico, creativo, che per me è vitale, inscindibile dalla mia personalità. Sono due elementi – la struttura educativa e la parte innata – che per fortuna si sono incontrati in modo armonico, anche grazie a un pizzico di fortuna.

Prima di abbracciare del tutto il cinema ti sei laureato in riabilitazione psichiatrica alla Sapienza di Roma

Sì, ho scelto una facoltà particolare. La psichiatria è affascinante: la linea tra finzione e realtà, sanità e follia, è sottilissima. Ha elementi scenografici, come il Wahnstimmung, un termine tedesco che indica la fase prima di un esordio psicotico, spesso schizofrenico o delirante. Tradotto significa “l’atmosfera del Venerdì Santo”: nella Bibbia, è il momento in cui muore Gesù, il cielo si tinge di viola, tutto sembra scollegato dalla realtà, quasi apocalittico. Un cinema. Un professore amante dell’arte mi ha fatto scoprire Zabriskie Point. Lui diceva: “Non avete scelto la psichiatria, lei ha scelto voi”. Lo stesso penso del cinema: mi ha scelto lui, come il mito della goccia cinese, un po’ alla volta, ci sono finito dentro.

Parliamo del tuo rapporto con Roma, invece. La romanità è un tema importante in questo film e tu hai più volte raccontato di essere uno di quei romani che non ha mai lasciato la città

Sì, è un tema chiave. Per me e per il film. Io e Gabriele cerchiamo una Roma sparita, viva per noi nostalgici. Nei miei vent’anni ero ossessionato: lavoravo in un ristorante e giocavo a fare l’oste dell’Ottocento, forzando anche il modo di parlare per tornare a un’epoca che non esiste più. Poi mi è rimasta in modo più naturale. Io vengo da quella Roma: la mia famiglia è legata a certe tradizioni, che però si perdono col tempo. Oggi la città cambia troppo, perdendo radici, e questo mi fa arrabbiare. Credo nelle radici da salvare, pur con lo scambio, e Gabriele questo lo condivide. In La città proibita, Marcello porta questa romanità con amore, Annibale, il personaggio di Giallini, invece la usa per escludere, e questo mi dà fastidio. Nel film Gabriele accosta la nostra cultura a quella cinese, ed è un’associazione che ha molto senso. Credo che il popolo cinese e quello italiano siano legati da elementi comuni – alimentazione, espressività, cultura artistica – e La città proibita prova a far parlare personaggi di queste radici, a farle sopravvivere in un mondo che appiattisce tutto. Piazza Vittorio, multietnica, è una metafora di tradizioni vive che coesistono nello stesso spazio. Un’altra cosa che adoro di Gabriele è la sua capacità di trasformare i romani in eroi epici, di portare la romanità nell’epos. È un’operazione complessa: i romani non hanno mai avuto nulla di epico.

Con Giallini avevi già lavorato, in Principe di Roma, qui però incontri anche Sabrina Ferilli. Come è stato lavorare con loro?

È stato incredibile. Sono due persone con un talento enorme, perché sanno affrontare la vita, non solo sopravvivendo o adeguandosi, ma rilanciando sempre. È una caratteristica dei grandi attori di una volta: non si limitavano a resistere, ridevano in faccia alla vita. Questo li rende immensi. Tecnicamente, poi, mi hanno trasmesso tantissimo, anche solo osservandoli.

Dall’altra parte, però, c’è stato l’incontro con Yaxi Liu, stuntwoman cinese qui al suo debutto come attrice e protagonista

L’incontro con Yaxi è stato bellissimo, con quelle affinità elettive che si creano quasi per magia. Mi colpiva il fatto che lei non avesse bisogno di niente: ha una forza incredibile. Mi ha regalato emozioni immense e un obiettivo: fare sempre un po’ di più, non mollare. Ha una tenacia straordinaria. Viviamo in una società che ci bombarda di messaggi – su Instagram, per esempio – dicendoci che dobbiamo essere perfetti, ma non lo saremo mai, e che dobbiamo accettare il fallimento. Questo è vero, ma non significa smettere di provarci. Accetti che i tuoi progetti possano fallire, ma non smetti di averne, perché è l’unico modo per cambiare qualcosa in un mondo che non ci piace. Yaxi è stata coraggiosissima: ha messo un po’ della sua storia nel film. Ci vuole coraggio a esporsi così, in modo vivo, a fior di pelle. Sono atti di coraggio rivolti al cambiamento; una piccola rivolta degli artisti. Certo, non sarà l’arte a cambiare il mondo.

Però magari, come la goccia di cui parlavamo prima…

Certo. Come mi disse una volta Valerio Mastandrea durante una lezione alla Volonté, le alternative devono esistere. Se continuiamo a raccontare sempre gli stessi modelli, gli stessi eroi, il mondo diventa uguale a sé stesso, senza mai un punto di vista diverso. L’alternativa è fondamentale.

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