PALERMO – Dopo avere aperto l’80° Mostra del Cinema di Venezia, Edoardo De Angelis porta pure alle Giornate del Cinema per la Scuola di Palermo il suo Comandante. Il film con protagonista Pierfrancesco Favino nei panni di Salvatore Todaro uscirà nelle sale italiane il 31 ottobre 2023.
Edoardo De Angelis, Comandante, per le tematiche affrontate e la crudezza del racconto, non è il film che si pensa subito per un pubblico di ragazzi. Cosa si aspetta da questa proiezione palermitana davanti a docenti e studenti?
Mi auguro che francamente possa interessare ai ragazzi, perché anche io sono un ragazzo e a me questa storia è interessata. Non c’è possibilità per me di accostarmi e di innamorarmi di una storia se ho anche solo il vago sospetto che possa riscuotere un interesse ristretto. Tanto più che Salvatore Todaro è una figura storica poco conosciuta, che ha operato in un’epoca che a scuola si studia. La sua voce aggiunge una sfumatura alle vicende degli esseri umani di quell’epoca. Perché se consideriamo che la sua è una storia di emblematica disobbedienza, perché è un uomo che ha deciso di seguire le leggi eterne, non scritte, infrangendo le leggi che gli venivano date, come regole d’ingaggio di quel momento, del periodo storico in cui viveva e della guerra. Ha deciso che se era giusto affondare il nemico, nell’ottica della guerra e secondo gli ordini che gli erano stati dati, era invece, altresì, giusto e importante, salvare l’uomo. Questa vicenda contiene una serie di cortocircuiti, che a me hanno affascinato e che credo possano essere un buon seme in una mente che sta crescendo e che si sta formando. Un seme che è un invito a declinare il concetto di forza in un modo giusto, intendendola come la capacità di aiutare, non solo quella di distruggere.
La frase più celebre di Todaro è “Noi siamo italiani”. Che significato attribuisce a queste parole?
Noi persone del Sud abbiamo storicamente un legame conflittuale con questa nazione che, per come l’abbiamo studiata a scuola, è stata frutto di un processo di unificazione. Invece, po, approfondendo le vicende, abbiamo scoperto che si trattò né più e né meno di una colonizzazione, di un atto di sottomissione. Siamo cresciuti chiedendoci cosa significasse essere italiani, perché a un certo punto abbiamo imparato a esserlo. Abbiamo imparato a essere una nazione che si erge sulla sua ecletticità, sul suo essere crogiolo di lingue, di culture, di credenze.
E Todaro ne era già consapevole in quel momento. Anche perché in quel sommergibile c’erano persone che venivano da tutta Italia.
Todaro ne era consapevole, sì. Il sommergibile è l’emblema del crogiolo, quel bordello meraviglioso e putrido che era L’Italia e che ancora oggi e l’Italia. Un luogo pieno di qualunque esempio di umanità. È questa la sua identità e questa è la sua ricchezza. Todaro lo sapeva perché era uno studioso si esoterismo, un uomo che girava il mondo per il suo mestiere e che traeva insegnamento dall’incontro con le altre culture. Era un vero italiano. Quando mi sono imbattuto in questa storia ho fatto pace con la parola Italia. Perché se essere italiano vuol dire tendere la mano a chi è più debole, tenere la porta aperta, accogliere, godere dell’incontro con l’altro diverso da noi, allora io sono orgoglioso di essere italiano.
Non una cosa che si dà per scontata di questi tempi.
Io ho sentito dire “prima gli italiani”, travisando il senso di questa identità. Il concetto di “prima gli italiani” non esiste, perché non ci può essere una classifica degli esseri umani. Se ancora oggi qualcuno mette in discussione questo principio che non dovrebbe mai essere messo in discussione, io voglio raccontare la storia di un uomo che, sotto il fascismo, se lo ricordò. In mezzo alla guerra, se lo ricordò e contravvenne agli ordini e morì un anno dopo le vicende narrate nel film. Todaro è stato insignito della medaglia all’onore militare, mentre l’uomo che gli detto le regole d’ingaggio che prevedevano di affondare e sparire, ovvero Karl Doenitz, fu condannato a 10 anni a Norimberga, per avere perpetrato una strategia di guerra inumana. A un certo punto la storia compone la sua armonia. Noi viviamo questo momento storico e per comporre un’armonia tra noi e la storia, ci dobbiamo ricordare di ciò che vale sempre e non solo qui e ora.
Qual è stata la sfida più grande di girare un film di questo tipo, quasi interamente ambientato dentro un sommergibile?
La parte più complessa è quella legata al racconto dello spazio. La parte interna del sommergibile è stata più una tentazione che una sfida, perché ero fortemente attratto dal voler raccontare il fuori, raccontando un dentro cieco. Far sentire tutto l’influsso che ha uno spazio dentro un altro spazio, anche se non si vede, perché è uno spazio, invocato, desiderato e che fa anche orrore. Le parti più tecnicamente complesse sono state quelle in esterno. Abbiamo ricostruito un sommergibile uno a uno, però ovviamente non avevamo le onde oceaniche né la nave che sparava. Per la prima volta ho fatto un utilizzo più importante degli effetti speciali in digitale.
Leggevo il 10% del budget.
Forse anche qualcosa in più. C’era la parte già messa in conto per le cancellazioni, già ampiamente digerite dal nostro sistema industriale. Mentre le parti generate completamente in digitale suscitavano in me più mistero. Ho deciso di metterle in scena, vedendole come le avremmo viste stando sul sommergibile. Quindi poco. Lontane. Perché la guerra che si faceva all’epoca funzionava così: anche se il nemico era lontano, gli effetti dei colpi si sentivano. Abbiamo utilizzato un sistema che mi permettesse di vedere subito cosa si sarebbe visto: grazie al sistema Near Real Time direttamente sul set – tramite un terzo monitor – potevo vedere generato in maniera grezza tutto l’ambiente digitale che si sarebbe poi ricostruito meticolosamente in seguito. Così io potevo dare una direzione ai gesti degli attori, agli spari. Poi tutto il resto era vero, il metallo, le esplosioni. Anche l’acqua che andava addosso ai miei ragazzi era vera, era forte ed era fredda.
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