Costanza Quatriglio: “Nel giardino segreto di mio padre Giuseppe”

'Il cassetto segreto' è un documentario intenso e labirintico sulla figura del giornalista Giuseppe Quatriglio raccontato dalla figlia Costanza. Presentato al Forum di Berlino, uscirà il 18 aprile distribuito da Luce Cinecittà che lo ha anche coprodotto


BERLINO – Un cassetto segreto si apre a ogni figlio quando ricorda il suo rapporto con un genitore scomparso, magari svuotandone la dimora. Ma nel caso di Costanza Quatriglio e di suo padre Giuseppe, grande giornalista, fotografo, scrittore, in quel cassetto c’è un mondo. Anzi, “il” mondo. Che parte dalla Sicilia e vi fa ritorno dopo un viaggio nel XX secolo che ricorda, per certi versi, quello di un altro personaggio della cineasta palermitana, il Vincenzo Rabito di Terramatta. Ma se lì a raccontare il secolo breve era la voce di un uomo analfabeta, gettato negli eventi inconsapevole, qui c’è un intellettuale raffinato e curioso, che ha fatto della sua vita una costante ricerca e ne ha conservato ogni minima traccia.

Nel gennaio 2022 quando Costanza è tornata nella casa dov’era cresciuta, a Palermo, chiamando i bibliotecari con l’intento di catalogare e donare alla Regione Siciliana l’immenso archivio di Giuseppe Quatriglio, firma storica del Giornale di Sicilia e di altre importanti testate, è nato il progetto di intraprendere quello che definisce “un viaggio sentimentale attraverso fotografie, bobine 8mm, registrazioni sonore realizzate da mio padre dagli anni  ‘40 in poi”. A questo immenso materiale si sono aggiunte, cuore del film, le riprese effettuate dalla stessa regista tra il 2010 e il 2011 con lui quasi novantenne.

Il cassetto segreto è diventato così un documentario di due ore, intenso e labirintico, dalla duplice anima, privatissima e pubblica. Prodotto da Indyca, Luce Cinecittà con Rai Cinema, presentato al Forum di Berlino, uscirà il 18 aprile distribuito dal Luce Cinecittà.

“Portare il cinema nella mia casa mi ha permesso di compiere un passaggio di trasfigurazione e comprensione profonda del tempo del distacco”, spiega Costanza, la cui opera prima L’isola ha appena compiuto vent’anni e che presto tornerà con un lungometraggio di finzione. In questo film ha dato spazio alle memorie del padre, ma anche alla sua di bambina, fin dal primo vagito e poi ha messo in scena se stessa adulta ripresa da Sabrina Varani. Tante sono le voci e i fantasmi: Carlo Levi e Jean Paul Sartre, l’amico Leonardo Sciascia, ma anche Anna Magnani, Cary Grant e Ingrid Bergman, Enrico Fermi con un autoscatto mancato, Renato Guttuso, il poeta Ignazio Buttitta. E tanti gli eventi che riaffiorano: dal terremoto del Belice al muro di Berlino, tra Parigi e l’America. Giuseppe Quatriglio – “instancabile ricercatore di cose siciliane”, come lo definiva Sciascia – è stato un punto di riferimento per il giornalismo in Sicilia e non solo. Fu detto “l’Argonauta, con il vello d’oro per bagaglio”, corrispondente dagli Usa, finalista allo Strega nel 2000 con il romanzo Sabìr, autore di un testo storico importante come il libro Mille anni in Sicilia, Premio Pannunzio per il giornalismo fotografico.

Cosa hai trovato nel cassetto segreto di tuo padre?

Adesso che il film c’è, penso di aver cominciato ad aprirlo nel 2010, quando lui aveva quasi 90 anni e ho iniziato a filmarlo tra i suoi libri e le sue carte. È stato lui a dirmi che avevo aperto il cassetto segreto, quando ho aperto un quaderno di poesie che aveva scritto all’età di 14 anni.

Come mai hai deciso di fare il film?

Quando mi sono trovata a casa con bibliotecari e archivisti ho fatto quello che faccio sempre, ovvero filmare questa situazione potente: degli estranei in casa che toccano tutto.

Cosa hai scoperto di tuo padre e di te?

Intanto che il cinema cambia le cose. Nel 2010, quando inizio a filmarlo, mio padre è restio, ma alla fine mi guida in giro per la città. La presenza della macchina da presa mi ha fatto vedere la casa in un altro modo, come la mappa del tesoro. Mi ha permesso di guardare ogni singolo dettaglio. Poi ho scoperto la dimensione del divertimento e il piacere che mio padre esprimeva nel suo lavoro. Quindi che era un Google vivente in tempi analogici, perché ogni pezzo, compresi i 2.000 negativi, era stato imbustato e nominato. Ho anche scoperto uno sguardo, il suo. Ho sempre pensato di aver ricevuto la mia educazione dal lato materno, ma adesso ho riconosciuto quello che mi è venuto dal lato paterno.

E’ stato anche un grande fotografo, infatti.

Sì, anche se non ha mai accettato di essere chiamato fotografo né storico. La sua parola chiave era “giornalista”, perché racchiudeva un’idea di mondo. Non è solo qualcuno che trova delle storie, che aderisce a un territorio, che ha una lingua propria e un modo di scrivere, giornalismo significa avere una curiosità perenne e restituire quello che scopri con una scrittura limpida e trasparente.

Quando hai deciso di metterti in scena?

Il racconto mi ha naturalmente portato a mettermi in gioco personalmente e in quel momento ho preso distanza da me come figlia. Ho cambiato modo di girare, ho dato la macchina da presa a Sabrina Varani, ma ho anche continuato a filmare io stessa.

C’è anche il tuo pianto di neonata e una struttura à rebours.

La prima scena che ho filmato, nel 2022, è il ritrovamento di una audiocassetta in cui c’è il mio pianto. La struttura a ritroso l’ho pensata immediatamente quando mi sono seduta al montaggio con Letizia Caudullo, ho sentito che non poteva che andare indietro per rispettare la genealogia delle cose. Credo che il film abbia una sua circolarità, l’inizio e la fine si completano. Solo alla fine comprendi ciò che hai visto all’inizio. Questa circolarità ha a che vedere con la vita e con la morte, con le grandi questioni che il film tratta, tra cui le guerre.

Letizia è appena scomparsa, prematuramente.

E’ venuta a mancare in modo scioccante il 13 febbraio. Se ne va una persona straordinaria che mi è stata accanto in questo film e in altri, da Terramatta in poi. Abbiamo lavorato veramente tanto insieme e si può dire che anche, per certi versi, siamo cresciute insieme sul linguaggio del documentario. Se ne va una persona che ha fatto parte del nostro cinema, lavorando dietro le quinte, come fanno i montatori, ma in modo straordinario. E poi se ne va una persona dal carattere meraviglioso, una persona veramente in gamba. Porto a Berlino il suo lavoro con orgoglio e tanto affetto.

Un altro luogo simbolico del film è il giardino della casa, che viene bonificato e riportato all’ordine, facendo entrare la luce nell’appartamento.

La potatura dell’albero era necessaria ma è diventata simbolica. Quel giardino venne costruito insieme alla casa, ma curare le piante è il gesto di cura per definizione. Nel film convivono le tante età di mio padre, della casa e mie. C’è la donna adulta ma anche la bambina che apre di nascosto i cassetti per rubare le macchine fotografiche. Il giardino rappresenta il sogno, l’infanzia. È archetipico.

La figura di tua madre rimane in qualche modo in disparte.

Spero di essere riuscita a trasmettere, sia pure in poche scene, l’immensità della relazione tra mio padre e mia madre, che è stata fondamentale anche per me. Lei ha saputo sempre tenere testa alla personalità piena di lui.

Tuo padre aveva un rapporto non episodico con il cinema.

Sì, andava sempre al Festival di Taormina, ad esempio. Si scrisse delle lettere con Cary Grant. Mi ha emozionato trovare le foto dal set de La terra trema di Visconti, oppure quelle di Anna Magnani. Aveva anche girato dei cortometraggi di paura, a un certo punto della sua vita.

C’è anche il racconto di una generazione.

Il dopoguerra ha consegnato loro un mondo in sfacelo, ma avevano vivacità, senso della comunità, un perenne riconoscersi l’uno nell’altro, l’attivismo, lo spirito critico. Oggi noi stiamo vivendo una situazione drammatica e sembriamo non accorgercene. Quando guardo le foto di Kiev e di Mosca negli anni ’50 mi sento in una bolla di protezione.

Un altro aspetto importante è l’idea di Sicilia che prende forma attraverso la storia di tuo padre.

Aveva un rapporto strettissimo con intellettuali e scrittori come Sciascia, Buttitta e Bonaviri, con artisti come Guttuso. E’ vero, qui c’è un’idea di Sicilia che ha bisogno di raccontarsi. C’è un’intervista di mio padre a Sciascia in cui discutono sul fatto che raramente un siciliano ha raccontato cose non siciliane. Era una Sicilia molto ricca intellettualmente, quella di Pirandello sopra tutti. C’è l’orgoglio di questa cultura che non viene vissuta passivamente ma viene sempre messa in discussione. E’ una terra viva, ricca, dalle radici culturali multiformi, una terra a più voci.

Qual è stato il contributo di Cinecittà?

Il film è prodotto dalla Indyca con Luce Cinecittà. Sono molto grata a questi produttori, Chiara Sbarigia e Simone Catania, che hanno dato il primo impulso al progetto, mi hanno convinto a farlo, prima ancora che io mi decidessi.

 

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