Com’è moderno Guy de Maupassant

In sala dal 1° giugno con Academy Two Una vita (Une vie) di Stéphane Brizé, tratto dal romanzo dello scrittore francese, un period film tutt'altro che convenzionale


Una biografia che ci mostra l’alternanza di momenti luminosi e felici e periodi bui e drammatici perché “una vita non è né buona né cattiva”. E’ semplicemente, una vita. Dopo La loi du marché (premio a Vincent Lindon a Cannes), Stéphane Brizé ha realizzato un film radicalmente diverso. Una vita (Une vie), ispirato al romanzo di Guy de Maupassant (1883), in uscita il 1° giugno con Academy Two, ha vinto il Premio Fipresci alla Mostra di Venezia ed è stato segnalato dal Sncci come Film della Critica, con questa motivazione: “Il regista racconta la tragica esistenza di una donna soffocata e tradita dagli uomini che ha amato (marito e figlio), scegliendo dal formato in 4/3 all’uso straordinario delle ellissi, di trasformare un solido melò in un’appassionante lezione estetica…”.  

Un film in costume dunque, ma tutt’altro che convenzionale. Il regista francese infatti fa una scelta stilistica forte restando addosso alla sua protagonista senza alcuna concessione all’aspetto spettacolare o artificioso del period film. Siamo in Normandia nel 1818, in piena Restaurazione. La giovane aristocratica di campagna Jeanne vive serenamente insieme ai genitori che la circondano di attenzioni. Fino a quando viene data in sposa al visconte Julien de Lamare, caduto economicamente in disgrazia ma avvenente e di modi apparentemente gentili. In realtà l’uomo si rivelerà gretto, sbrigativo e soprattutto infedele: prima mette incinta una cameriera, quindi, dopo essere stato perdonato, intrattiene una relazione con la migliore amica della moglie. “Jeanne – spiega Brizé – entra nella vita adulta senza aver mai affrontato la perdita di quel paradiso che è l’infanzia, quel momento dell’esistenza umana in cui ogni cosa sembra perfetta. Quel momento in cui gli adulti sono coloro che sanno tutto, coloro che ci dicono di non mentire e, dunque, loro stessi non mentono mai, o così crediamo”. Il film è dunque il ritratto di questa donna-bambina su cui le disavventure sembrano abbattersi senza che lei sappia come difendersi. Ad esempio è centrale la scena in cui, alla morte della madre, scopre le lettere infuocate che un amante aveva scritto alla donna e vede in un attimo sgretolarsi la sua idea del rapporto idilliaco tra i genitori, ma quelle lettere le brucia immediatamente come non volendo veramente prendere atto della realtà.

Ma al di là degli aspetti emotivi, Brizé, e qui sta un profondo punto di contatto con La loi du marché, presta grande attenzione anche agli aspetti concreti, in particolare il declino economico della famiglia, ridotta sul lastrico da una serie di imprese scellerate condotte all’estero dal figlio di Jeanne e Julien, con varie ipoteche che sfociano nella vendita delle fattorie. Nel ruolo della protagonista un’appropriata Judith Chemla, affiancata da Swann Arlaud (il visconte), Yolande Moreau (la madre) e Jean-Pierre Darroussin (il padre). 

“Racconto con melanconia un momento storico che ha segnato la fine delle illusioni per tutti noi”, spiega il regista francese. E prosegue: “La melanconia fa parte del mio vissuto. Nei miei film c’è sempre l’idea che qualcosa abbia tradito i nostri sogni. La nostra è un’epoca di grande brutalità che ha reso il lavoro scarso tanto da attribuire il potere a chi quel lavoro ce l’ha”.

Il formato ridotto 1:33 usato nel film, sottolinea Brizé: “E’ stata una scelta intellettuale fatta per tradurre in immagini l’idea della chiusura, del senso di reclusione di tutti i personaggi, specialmente della protagonista”.

Cristiana Paternò
30 Maggio 2017

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