“Specchio, servo delle mie brame, chi è la più ‘stramba’ del reame?”
Forse proprio lei, Biancaneve, che da secoli si presta a mutazioni continue, oscillando tra l’icona infantile e il simbolo archetipico di pulsioni oscure. Recentemente è tornata a far parlare di sé per il remake Disney in sala in questi giorni, pomo della discordia woke e bersaglio prediletto di haters e nostalgici, tra nani cancellati, principi evaporati e una protagonista – Rachel Zegler – che osa discostarsi dal doppio canone caucasico e passivo. Ma la verità è che Biancaneve è sempre stata molto più problematica di quanto si voglia ricordare, soprattutto perché quando si grida alla “fedeltà all’originale” non si ha in mente il vero modello originale, ma la versione Disney del 1937.
Anche perché è difficile stabilirla, una fonte d’origine, dato che anche la prima codificata e messa su carta dai fratelli Grimm nel 1812 era frutto di un riordino di varie tradizioni orali che prendevano a loro volta qua e là da miti e racconti folkloristici precedenti.
Comunque, il cuore della fiaba è un thriller gotico dove si parla di cannibalismo (la regina vuole mangiare fegato e polmoni della bambina, credendoli suoi, accompagnati da un buon rosso, manco fosse Hannibal Lecter), necrofilia (il principe acquista una ragazza morta in bara, che tiene in casa come soprammobile fino a che un servo non la rianima per sbaglio), e pedofilia implicita (lei è una ragazzina, lui un adulto incantato dalla sua bellezza). Il tutto condito da un’ossessione per la bellezza con tanto di filtri – magici – che sembra anticipare Instagram di qualche secolo. E poi, in epoca di #metoo, mettiamoci pure la molestia, perché mentre il principe la bacia, la bimba è addormentata, e dunque non può essere consenziente. Un’immagine che – a non voler considerare il contesto, cosa che accade fin troppo spesso – oggi urla “Roipnol” da tutte le parti.
Disney, facendone un monumento di zucchero e candore, fu il primo a tradirla, pur non rinunciando del tutto a una regina da brividi e a un’estetica che ancora oggi risulta perturbante, come nella terrificante sequenza della fuga di Biancaneve nel bosco, il classico momento traumatico, assieme alla trasformazione della strega, che portava i bambini a voler uscire dalla sala immediatamente, secondo solo alla famigerata morte della mamma di Bambi.
Ma è nel cinema alternativo e visionario che Biancaneve trova le sue declinazioni più weirdo. Basti pensare a Biancaneve nella Foresta Nera (Snow White: A Tale of Terror, 1997), dove Sigourney Weaver interpreta una regina tra il gotico e lo psicotico, e la fiaba assume toni da horror familiare vittoriano. Oppure al film muto e sperimentale Biancaneve (Branca de Neve, 2000) di João César Monteiro, dove la protagonista non compare quasi mai e il racconto scorre tra simbolismi sonori, silenzi e immagini astraenti: una sorta di Bergman lisergico.
Ancora più radicale è Blancanieves (2012) di Pablo Berger, dove la fiaba si trasforma in un’opera muta ambientata nella Spagna degli anni Venti. Biancaneve è una torera, i nani sono matador da circo, la Regina Cattiva è una matrigna sadica in stile Marlene Dietrich, e il tutto si avvolge in un’estetica espressionista da necro-romanticismo iberico. È il mito in chiave barocca, dove la fiaba incontra il melodramma e la morte è un elemento erotico e politico al tempo stesso.
Anche l’America post-Twilight ha voluto dire la sua: Biancaneve e il Cacciatore (Snow White and the Huntsman, 2012) mette Kristen Stewart nei panni di una principessa guerriera, Charlize Theron come regina-vampira uscita da un editorial gotico, e Chris Hemsworth con l’ascia da maschio decostruito. Ma più che fantasy, è allegoria: qui Biancaneve non è più una vittima da salvare, ma una rivoluzionaria che si solleva contro l’oppressione della matrigna, rovesciando il trono e il paradigma. Una dinamica che ritroviamo – con accenti più espliciti – nel nuovo live action Disney, dove il principe viene cancellato e sostituito da un simpatico guascone, e la protagonista è costruttrice attiva del proprio destino. In entrambe le versioni, la monarchia tossica viene smantellata dall’interno. Cambia l’estetica, resta la valenza politica: Biancaneve si fa leader, e la fiaba diventa rivoluzione. E il successo del film ha persino generato un seguito, Il cacciatore e la regina di ghiaccio (The Huntsman: Winter’s War, 2016), spin-off/prequel/sequel che espande l’universo dark e mitologico, riducendo la protagonista a un’assenza e puntando tutto su Hemsworth, Theron e Emily Blunt in versione “Elsa maledetta”. Biancaneve, intanto, resta sullo sfondo, segno che il mito può anche essere rimosso, ma non eliminato.
Sempre del 2012 Biancaneve (Mirror Mirror, 2012) di Tarsem Singh, il visionario regista di The Cell e Immortals, che trasforma la fiaba in un trip gotico-pop con estetica da sfilata haute couture sotto LSD. Julia Roberts è una regina vanesia e narcisista da commedia acida, mentre Lily Collins è una Biancaneve disneyana ma con l’eyeliner da battaglia. Il tutto condito da duelli fiabeschi, numeri musicali Bollywood-style e una mela che sembra un oggetto di scena di Tim Burton dimenticato su un set Felliniano.
Un oggetto visivo non identificato, tra il barocco digitale e il fashion camp, che esce nello stesso anno del cupo Biancaneve e il Cacciatore: yin e yang della stessa fiaba. Dove uno va di tenebre e rivoluzione, l’altro sbrilluccica tra colpi di spada e gonne imbottite. Due specchi che riflettono l’archetipo da angolature opposte: una battaglia tra gloss e grunge sul corpo della stessa principessa.
Biancaneve e i tre compari (Snow White and the Three Stooges), del 1961, segna la seconda apparizione cinematografica del celebre trio comico statunitense I tre marmittoni (The Three Stooges), composto da Moe Howard, Larry Fine e Joe DeRita. E’ stato l’unico film anni ’60 del trio comico a essere girato a colori. E fu anche il meno apprezzato. La critica non gradì la scarsa presenza in scena dei Tre Marmittoni. Persino Moe Howard dirà in seguito che Biancaneve e i tre compari fu “l’errore technicolor” del trio. Ma nonostante avesse avuto scarso successo anche al botteghino, il film venne candidato nel 1961 al Writers Guild of America Award per la miglior sceneggiatura per una commedia musicale.
Ma Biancaneve non è solo gotico e girl power: è anche oggetto di contaminazioni apertamente erotiche o pornografiche. La più celebre è La vera storia di Biancaneve (The Erotic Adventures of Snow White, 1970), un cult dell’exploitation americana che trasforma la fiaba in un tripudio di nudità psichedelica, dove i nani sono sette maniaci sessuali e la mela diventa un feticcio fallico. Segue a ruota Grimm’s Fairy Tales for Adults (1969), antologia softcore tedesca in cui Biancaneve si spoglia di ogni innocenza tra letti, boschi e allusioni grottesche. E non mancano i classici da videoteca VHS anni ’80 come Biancaneve sotto i nani, piccolo gioiello trash del porno italiano pre-Internet, il cui titolo è ormai leggenda. In queste versioni, la fiaba mostra il suo lato più torbido, esplicitando ciò che nei Grimm era solo sottinteso: la carne come campo di battaglia, la bellezza come condanna, il desiderio come linguaggio universale.
Il remake Disney in arrivo ha già generato più flame di un tweet di Elon Musk. Biancaneve è latina, indipendente, emancipata. I nani non sono più nani, ma creature “magiche” per evitare stereotipi, e che per contro hanno fatto imbufalire Peter Dinklage, vera star affetta da nanismo che rivendica il diritto delle persone piccole di avere ruoli adatti a loro.
Il principe? Non serve. La salvezza arriva da dentro, e non da un bacio. Per molti è un aggiornamento doveroso, per altri una riscrittura ideologica. Ma forse il punto non è né l’uno né l’altro: Biancaneve è sempre stata riscritta, a ogni passaggio storico, a ogni cambio di specchio. E ogni volta rifletteva le ansie del tempo.
L’orrore della fiaba originale – il corpo infantilizzato, il desiderio maschile sulla morte, la maternità cannibale – non è un bug, è una feature. È il motivo per cui Biancaneve continua a ossessionarci. E oggi, in un’epoca in cui ogni riflesso scatena guerre culturali, forse la domanda non è più “chi è la più bella del reame?”, ma “chi ha il coraggio di guardarsi davvero nello specchio?”.
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