Era il 12 novembre del 1993 il giorno in cui ci innamorammo di Caro Diario, settimo lungometraggio di Nanni Moretti che aveva compiuto i suoi primi 40 anni pochi mesi prima, il 19 agosto. Sei mesi dopo, il suo film più autobiografico dai tempi di Io sono un autarchico avrebbe sedotto la critica francese e vinto la Palma d’oro per la migliore regia al festival di Cannes. Questo giro di date, a partire dall’anniversario del film, potrebbe anche non piacere al suo autore perché costringe tutti noi a guardare indietro insieme a lui. Mai come in Caro diario però Nanni è stato capace di esercitarsi nell’autoironia e nel sorriso – vi ricordate l’inquadratura finale, quel fantastico primo piano con un bicchiere d’acqua in mano? – e quindi sono sicuro che anche adesso giocherebbe con me, sul filo dei ricordi, magari in una pasticceria del quartiere Trieste a Roma, discettando sulla decadenza della Sacher Torte.
Si è scritto che questo racconto in tre atti è la versione morettiana di 8 e ½, che è un Effetto notte girato con il cuore, che il ritorno alla regia di Michel Gondry è oggi soltanto uno sguardo imbarazzato su questi modelli. Ma forse non si è detto abbastanza che Caro diario infrange definitivamente, non solo nel cinema italiano, la barriera tra documentario e cinema di finzione, spalancando le porte a un cinema della realtà senza etichette. Monsieur Morettì non si offenderà se gli ricordo che, nel suo felice piacere del frammentario e della sorpresa che caratterizza il suo sguardo, circola qui un venticello godardiano con la tenerezza del primo Truffaut. Nanni Moretti forse sorriderà con noi della spudorata sincerità con cui, in quei tre episodi, ha saputo guardare al mondo e a se stesso senza ferocia, con una leggerezza che non cancella la storia e i suoi orrori – il finale del primo episodio sulle note del Concerto di Colonia -, ma riesce a prenderne le distanze in nome di un’umanità consapevole. Lo “splendido quarantenne” di allora ci insegna che si può essere diversi senza rinunciare a se stessi, ai propri valori, a un’idea unica della vita.
Il 1993 non è un anno come tanti in Italia e nel mondo: la Mafia perde il “Capo dei capi” Totò Riina, ma non cessano gli attentati contro lo Stato da Via dei Georgofili a Firenze a Via Palestro a Milano; Carlo Azeglio Ciampi viene nominato primo ministro e Bettino Craxi deve sfuggire l’ira della folla davanti all’Hotel Raphael di Roma; Yasser Arafat e Yitzhak Rabin firmano, sotto lo sguardo benevolente di Bill Clinton, un accordo di pace tra l’Autorità Palestinese e lo Stato di Israele che resterà lettera morta nonostante le dichiarazioni di principio; a Roma si scioglie la Democrazia Cristiana e a Maastricht nasce l’Unione Europea così come la conosciamo oggi; Toni Morrison è la prima scrittrice di colore a vincere il Premio Nobel e Federico Fellini viaggia a Los Angeles per ricevere l’Oscar alla carriera. In Russia Boris Eltsin non esita a usare i carri armati per imporre le riforme a un riottoso Parlamento e a Praga un poeta, Vaclav Havel, diventa il primo presidente della Repubblica Ceca. L’anno dopo comincerà la stagione di Silvio Berlusconi politico. Cinque anni dopo, con Aprile, Nanni Moretti riprenderà la cinepresa del documentarista, ma questa volta racconterà una diversa Italia e un diverso se stesso.
Se torniamo a guardare con il binocolo della storia Caro diario ritroveremo note e sguardi che risuonano ancora ne Il sol dell’avvenire: la radiografia delle speranze perdute, della perdita dell’innocenza – il pellegrinaggio in Vespa fino al cippo che ricorda il massacro di Pier Paolo Pasolini -, la ricerca di una dimensione intima che permetta di superare la paura della morte e la stanchezza di vivere. Se ci pensiamo, il progredire degli episodi ha la stessa cadenza: il viaggio dentro Roma è un inno alla bellezza, il viaggio nelle isole è la sconsolata celebrazione della bruttezza e dell’impotenza di fronte a una Natura incontaminata (ma fino a quando?), il viaggio della malattia è una riconquista di sé che spazza via persino il complesso della pagina bianca, quel vuoto creativo da cui nasce il film. La Roma dei monumenti, delle strade, dei muri su cui si scrive la storia collettiva, nessuno ha saputo ritrarla con la potenza libera ed esplosiva che Moretti dipinge surfando in Vespa in un itinerario solo apparentemente senza meta. La Natura che mette a disagio l’uomo è quella in cui si smarrisce, vagando da un’isola all’altra, il regista in cerca di calore ed ispirazione. La Persona, così fragile e così sola di fronte alla scienza e al fato, è il centro del viaggio e anche per questo lo stile del film cambia ancora una volta: prima road movie, poi commedia amara, infine inchiesta senza finzione. Si è scritto che la traduzione francese del titolo, “journal intime” restituisce appieno la sfacciata umanità che Nanni regala all’altro da sé davanti all’obiettivo. Questa è certamente una delle ragioni per cui possiamo parlare di Caro diario come di un film memorabile. Forse soltanto Marco Bellocchio con Marx può aspettare ha saputo restituirci altrettanta verità attraverso il racconto autobiografico.
Ci sono dei film-spartiacque, per il loro autore e per le diverse stagioni del cinema. Caro diario – nel bel restauro della Cineteca di Bologna che lo riporta alla vividezza dei colori e delle sfumature – appartiene a questa categoria. Non solo perché c’è un Moretti prima e dopo questo racconto intimo senza il quale non sarebbe potuto esistere “La stanza del figlio”; ma perché c’è un’Italia che si sveglia diversa solo pochi mesi dopo gli applausi a Nanni: nel’94, oltre alla giuria di Cannes, sarà celebrato dal David di Donatello, dai Nastri d’argento e Globi d’oro, perfino da un crescendo rossiniano di Ciak d’oro, proprietà di quel Silvio Berlusconi che – da imprenditore – aveva partecipato alla produzione di Bianca. Ma dopo Caro diario anche Nanni Moretti gira pagina. Erano solo 30 anni fa…
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