C’è un personaggio minore del nuovo film di Woody Allen, la commedia romantica e malinconica Café Society, in sala con Warner Bros: un gangster ebreo che, in attesa dell’esecuzione capitale a Sing Sing, si converte al cristianesimo, perché i cristiani credono alla vita dopo la morte e gli ebrei no. Grande scandalo della mamma, che un figlio assassino lo può accettare ma uno convertito proprio no. E’ uno dei momenti clou di un film che, nonostante la giovane età dei personaggi principali e il tono apparentemente leggero, ha in sé qualcosa di crepuscolare e tragico. Anche se il regista, che ha compiuto 80 anni il 1° dicembre e continua a sfornare un film l’anno, non si sente al capolinea. “I miei genitori sono arrivati tutti e due a diventare centenari, quindi ho buone chance. Mangio e sano e faccio ginnastica. So che un giorno avrò un colpo apoplettico e resterò sulla sedia a rotelle, e tutti diranno ‘quello lì era Woody Allen’, ma finché non succede continuerò a fare film”.
Eccolo dunque con una vicenda ambientata negli anni ’30, anni ruggenti per Hollywood e per il jazz. Bobby (Jesse Eisenberg, bruttino e impacciato come il primo Allen) è un giovane ebreo newyorchese che parte alla volta di Los Angeles dove lo zio (Steve Carell) ha fatto fortuna come agente delle star. Tra un pranzo con Judie Garland e una cena a bordo piscina con Ginger Rogers, il ricco parente, fin troppo in carriera e sicuro di sé, decide di aiutarlo, affidandolo alla sua avvenente segretaria Veronica detta Vonnie (Kristen Stewart) incaricata di portarlo in giro per la Mecca del cinema e dirozzarlo un po’. Tra i due nasce del tenero ma lei si rivela impegnata con un altro uomo, spesso assente per motivi che non tarderemo a scoprire. Tanto che Bobby finirà per tornare a New York, deluso e ancora innamorato. Ma proprio nella Grande Mela farà carriera come gestore di un locale notturno alla moda, sposando un’altra Veronica (Blake Lively). E tuttavia senza scordare quella antica fiamma perché l’amore non corrisposto fa più vittime della tubercolosi.
Se è vero che la vita è una commedia scritta da un sadico, Café Society è la quintessenza di questa visione, con i suoi personaggi votati comunque all’infelicità amorosa. A chi gli chiede se si senta romantico, il regista risponde senza mezzi termini: “Io provo sempre ad essere romantico, certo questa volta c’è di più, un fascino particolare, quello delle epoche passate, New York è una città romantica, la Hollywood degli anni ’30 lo è, le storie d’amore complicate lo sono terribilmente con quei protagonisti tra Clark Gable e Cary Grant… Amo il cinema di quegli anni, è quello che mi ha influenzato”. E dunque omaggio al cinema. E omaggio, ancora una volta all’amata New York, preferita per mille motivi – dalla cheese cake a Central Park – alla solare e spumeggiante Los Angeles. La città è al centro della bellissima fotografia di Vittorio Storaro, chiamato a illuminare questo primo film digitale di Allen (prodotto da Amazon, girato con una Sony CineAlta F65, costato 30 milioni di dollari). “Ci siamo sfiorati altre due volte – ha ricordato il dop italiano, tre volte premio Oscar per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore – e finalmente siamo riusciti a lavorare insieme”. Per lui, che il regista americano definisce senza mezzi termini un “genio”, “immagini e colore sono gli strumenti del cineasta come per lo scrittore le parole e per il musicista le note, ma è solo grazie al lavoro del regista che io posso esprimere la mia arte. Con il digitale tutto è cambiato e ci spinge ancora di più ad elaborare un linguaggio visivo differente per ogni regista con cui lavoriamo. Per Allen abbiamo cercato di mostrare il Bronx, Hollywood e poi ancora New York con immagini specifiche. Ogni film detta un linguaggio diverso e noi dobbiamo seguirlo”.
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