BARI – Bellocchio vs Piovani e viceversa. Due Maestri, del cinema e della musica per il cinema, che si sono incontrati per la prima volta Nel nome del padre, era 52 anni fa.
La loro prima collaborazione è nata “in maniera molto semplice”, dice Nicola Piovani, che racconta lui avesse lavorato con Silvano Agosti e “Marco – che era già una celebrità, aveva già fatto I pugni in tasca e La Cina è vicina – mi chiese di lavorare con lui”. Bellocchio spiega: “avendo fatto i primi due film con Ennio Morricone poi desideravo lavorare con un giovane, ne parlai con Agosti e così conobbi Nicola. Un aneddoto: Morricone, poi, lo chiamai per avere l’originale della colonna de I pugni in tasca e lui, dall’alto della sua gloria (ride), mi disse: ‘perché non mi hai più chiamato? Lo so: perché la colonna de La Cina è vicina non ti è piaciuta’. Ecco, lavorare con uno più giovane di me voleva dire poter seguire il corpo della musica: è stata una soluzione eccellente”.
Da quella prima volta, ne sono seguite altre 7, fino alla più recente, per Il traditore.
Piovani, sulla grande sensibilità musicale di Bellocchio, cosa non scontata per un regista, come sottolinea Enrico Magrelli, maestro di cerimonie e moderatore dell’incontro barese, nell’ambito della retrospettiva La storia, la memoria. Tributo a Marco Bellocchio, tiene a mettere a fuoco come “anche un musicista ha un cammino e noi ci siamo incontrati, per esempio, quando Marco stava per fare Enrico IV (1974) per cui mi disse che voleva farlo in abiti contemporanei e lì io sentivo una lontananza… perché il cinema non deve essere sempre un matrimonio, perché se no si tratta di un territorio di conquista. Fra l’altro, con l’eccezione di Fellini e Rota, lavorando molto insieme, vale la battuta: ‘dopo 25 anni di convivenza, basta un’occhiata e si fraintendono al volo’. Qualche volta cambiare aria fa bene a un musicista, a un regista, a tutti noi. Un musicista non esegue qualcosa di tecnico, è più simile a un attore, per cui io potrei essere inadattissimo per un film: un po’ di leggerezza aiuta”. Poi, addentrandosi sul mestiere “a quattro mani” e sul Bellocchio raffinato della musica, Piovani continua tornando a ribadire che per ciascun artista: “c’è un cammino e quello di Marco è grandissimo; Nel nome del padre è un lavoro molto emotivo, con cui avevo un rapporto quasi teatrale, da melodramma. Poi andando avanti è stato diverso, perché il secondo film insieme, Sbatti il mostro in prima pagina (1972), era più di genere, quindi io cominciavo a fare i conti con quello; questi sono i gradini di cammino. Poi, tecnicamente, ricordo l’esperienza de Gli occhi e la bocca (1982): lui mi chiese sperimentalmente di cercare con la musica un’anima parallela e così feci una registrazione su una cassetta, che gli piacque; quando però siamo stati al montaggio non entrava nell’anima del film, forse lo raccontava ma a occhi chiusi, così studiai di più il frammento da scrivere per il film, anziché la sinfonia”.
Per Marco Bellocchio, “nel rapporto col compositore c’è il desiderio innaturale di avere prima la musica, perché è un impasto importante, esplosivo, perché è difficile montare senza musica. Mi ricordo che in Nel nome del padre c’era una base che avevo imparato quando andavo al catechismo, che poi Nicola ha rielaborato: il grande tema di un film si rielabora in mille modi diversi. Nel Nome del padre è stata una colonna molto bella, con le basi di inni religiosi di cui poi Nicola ha fatto la sua musica”.
Piovani non ha dubbi: “la tecnica crea lo stile. Ricordo il vecchio Ruggero Mastroianni che si arrabbiava quando mettevano musiche provvisorie al montaggio, perché sosteneva che per vedere i difetti del film vada visto senza musica. I nuovi mezzi tecnologici facilitano e complicano, perché quando si può fare tutto si va un po’ per tentativi… Per una drammaturgia precisa è importante non sfarfallare: vedo adesso film con accoppiamenti perfetti di sequenza in sequenza, ma poi non hanno una densità che cresce emotivamente”.
Bellocchio, però, è ironicamente e concretamente tranchante: “nei primi film si lavorava con meno ma c’erano grandi orchestre, adesso con un simulatore si fa una pre-musica; era un’altra impostazione, ma, altrettanto, in poche parole quella che veniva fatta poi te la dovevi tenere! Penso alla musica de Il gabbiano (1977), però meravigliosa, molto italiana”.
Il gabbiano, per il Maestro Piovani, “è lontano tecnicamente da oggi, sembra quasi archeologia cinematografica, nonostante sia tutt’ora un capolavoro. Ricordo precisamente la prima grande delusione che ricevetti dai critici: a un certo punto, nel film, c’è un barcaiolo che canta una canzone, e io ne avevo scovata una di Čajkovskij, da un testo toscano, Pimpinella. Ero fiero della mia etica, ma poi uscì la critica su ‘l’Unità’: ‘musica bella ma perché mettere uno stornello toscano?’”.
Bellocchio è certo: “Nicola ha un suo segno. C’è la ricerca di un’originalità” nel suo comporre.
Riflessione a cui Piovani rilancia dicendo che “il lavoro del musicista è entrare in un’altra poetica. Non è la ricerca di metterci la firma. Non la vivo come un fatto stilistico: la ricerca di originalità emotiva è sempre altrove”.
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