RIMINI – Marco Bellocchio lo incontriamo seduto nell’iconico Cinema Fulgor di Corso d’Augusto 162, quello prediletto dal maestro riminese: è tra gli autori che Rimini ospita per le celebrazioni del 100mo compleanno di Federico Fellini, che il regista piacentino incontrò la primissima volta quando era allievo di Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Quando lei iniziava a fare il cinema – era il ’65, I pugni in tasca – Federico Fellini aveva già diretto La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 ½ e Giulietta degli spiriti, proprio nell’anno del suo primo film: lei, allora appena 26enne ed esordiente, guardava al cinema del Maestro?
Io l’ho conosciuto nel ‘59/’60, quando venne al Centro Sperimentale a presentare La dolce vita: avviene lì la mia scoperta diretta di Fellini, che però già conoscevo – non personalmente – da Lo sceicco bianco e I vitelloni. In particolare, Giulietta degli spiriti è – secondo me – un film di crisi, e io, che in quel momento avevo iniziato a fare cinema, mi ponevo in una posizione di separazione, di diversità: poi, poco alla volta, ho scoperto davvero la sua grandezza, che in verità avevo comunque già scoperto prima. Il punto di contatto fu – ribadisco – quando venne al Centro Sperimentale a presentare il suo film: per il mio carattere, ero uno che ascoltava con molta attenzione ma non intervenivo, ma ricordo che lui fu piuttosto benevolo dinnanzi alle domande che ricorrono, legittime, da parte dei giovani che aspirano al mestiere, e a cui spesso un regista non sa bene come rispondere. Ricordo che poi, ad un certo punto, apparve anche Mastroianni, sempre con la sigaretta in mano, restò di spalle a Fellini: ci colpì perché, nonostante fosse piuttosto giovane, sembrava la vita lo avesse fatto vivere molto intensamente.
Il vostro cinema, apparentemente, ha un passo differente, eppure credo che l’ego narrativo, introdotto con forza da Fellini nel cinema, faccia parte anche dei suoi racconti: sente di avere – seppur usato con modalità differenti – in comune questo aspetto?
Dice bene riguardo l’ego narrativo, perché caratteristica primaria di Fellini, che è riuscito ad esaltarlo facendone dei capolavori, ma non semplicemente autocompiacendosi raccontando se stesso, lui è abbastanza raro per il modo di lavorare e trasfigurare l’autobiografia: in questo senso, pur partendo dalla sua grande esperienza del Neorealismo, con il suo cinema se n’è poi separato completamente; io, con altre esperienze, ho utilizzato vissuti autobiografici, lo stesso I pugni in tasca, ma anche La Cina è vicina e Nel nome del padre, che partivano, però, anche da una formazione culturale differente: erano gli anni in cui eravamo molto influenzati da una parte da Antonioni, dall’altra da Bergman. Comunque, Fellini è un genio artistico che ho scoperto, più profondamente, dopo… .
Bobbio è, per lei, quello che Rimini è stata per Fellini? Cosa significa per un autore di cinema avere un così forte legame con la propria provinciale terra natìa: come influenza il proprio fare cinema?
Bobbio è stata per me un’esperienza molto, molto importante: il mio primo film è stato girato lì, utilizzando persone, situazioni, che mi hanno permesso di lavorare con una forte libertà, per cui i risultati dipendono anche da questo. Poi, è come se mi fossi progressivamente allontanato, infatti La Cina è vicina è un film di provincia, ma ambientato a Faenza: il mio ritorno a Bobbio non è stato un ritorno nostalgico – come può essere stato per Fellini con Rimini – ma creativo, nato con la nascita di mia figlia; venni invitato in forma istituzionale per fare dapprima un corso e quell’occasione fu molto importante perché, in modo totalmente diverso ma famigliare, rimisi in scena persino le mie sorelle! È stata una ripresa di rapporto con Bobbio apparentemente minimale, ma per me molto importante.
Se – per fantasia poniamo – potesse disquisire oggi… con Federico Fellini, c’è un tema su cui la appassionerebbe confrontarsi?
Quando lo conobbi avrei voluto chiedergli: ‘ma credi in Dio, o non credi?’. Non so se credesse, ma lo davano sempre per un autore influenzato dal Cattolicesimo, di cui sapeva tanto e che molto ha impregnato il suo cinema, ma non so se davvero avesse, verso l’educazione cattolica, un coinvolgimento profondo di Fede. Glielo vorrei chiedere, sì.
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