Un’opera prima che non passa inosservata, in Riflessi, è Le Eumenidi di Gipo Fasano, classe 1993, studi di architettura, nessuna formazione classica, per sua stessa ammissione. Eppure. Ispirandosi alla terza tragedia dell’Orestea – e non manca la citazione di Pasolini e dei suoi Appunti per un’Orestiade africana – narra la persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste, colpevole di matricidio, fino al processo che culmina con la sua assoluzione grazie al voto di Atena. Insomma, un cambiamento epocale della civiltà occidentale, il predominio del patriarcato e “una prima giustificazione del femminicidio”. Tutto ciò è poco più di uno spunto per una vicenda volutamente graffiata e contorta, girata con uno smartphone appena modificato con lenti anamorfiche e virata in bianco e nero. L’occhio sta addosso (anche troppo) al protagonista Valerio Santucci, un ragazzo dei Parioli, che gestisce con il padre il ristorante Il caminetto. Si è fatto male a un braccio – dà versioni e spiegazioni sempre diverse dell’incidente – ed è perseguitato da una colpa oscura: “l’ho uccisa”, ripete. Oreste è Valerio – interprete e personaggio, travaso continuo di realtà e finzione – che vaga di notte per Roma, in una corsa adrenalinica, schizoide, dove si fa continuo uso di cocaina, alla guida, nei locali, mentre si prepara una amatriciana da divorare per fame chimica. La coca viene persino tagliata sullo schermo di un telefonino che squilla ininterrottamente: è il numero della madre. Da solo o insieme agli amici di sempre, con sua sorella, in un tentativo di fuga scomposto, nella bestemmia perenne, a bordo di un autobus: Valerio è relitto di se stesso e così sono i suoi compagni di avventure.
“Valerio – spiega Fasano – è il personaggio di se stesso. Si muove nel suo quartiere e incontra la sua gente, attori non professionisti, strappati dalla loro vita e obbligati ad imitare se stessi. Gli elementi del profilmico non dovevano essere in grado di distinguere la realtà dalle riprese, se non per le scarne e sporadiche indicazioni di regia. Il film è girato con un corpo macchina che i protagonisti avrebbero guardato ai limiti dell’indifferenza: il cellulare. Uno strumento del quotidiano, quello che abbiamo in tasca o appoggiato sul tavolo, è diventato l’unico artificio cinematografico in grado di immortalare la realtà di una generazione, e di coniugare un modello antico con il mondo contemporaneo. Le immagini del film, girate in 2,39, sono in un bianco e nero fortemente contrastato; fluttuanti interni pieni di luce, schermi bianchi che precipitano in esterni neri. Il bianco e il nero si alternano in una lotta continua tutta la notte, fino a che la luce del sole non torna ad illuminare tutto di grigi”.
Assai lunga la genesi del progetto, prodotto da Giorgio Gucci: tre anni di gestazione, un anno di riprese, quasi tutte in notturna, una post produzione che l’autore definisce infinita. “In questi deragliamenti, Eschilo ci rimetteva sempre sui binari”. Un film realizzato tra amici, con complicità, che nasce anche dalla sperimentazione sul mezzo tecnico e di sperimentazione si nutre: “Ho frequentato i festival del mobile cinema a Parigi e Zurigo, sono tecniche di solito usate per i videoclip, ma approdate anche al cinema, però la mia idea è precedente al film di Soderbergh”, afferma con orgoglio. Singolare il lavoro sulle musiche con l’uso della Traviata per rappresentare la ribellione nei confronti del padre da parte del protagonista in un parallelismo con Alfredo Germont.
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