Nannarella, attrice senza confini e donna senza fortuna; Anna prima interprete non anglosassone laureata con l’Oscar principale (La rosa tatuata, 1956); Magnani che saluta Federico con la frase “Nun me fido” e chiude la porta di casa a un passo dalla fine (Roma, 1972). È difficile parlarne senza riconoscerne il mito mediterraneo, una solarità terragna e corrusca che passa oltre le epoche e ne fa in questi giorni l’effige della prossima Festa del Cinema di Roma. Anna Magnani se ne è andata 50 anni fa il 26 settembre 1973 a 65 anni, eppure rimane lì, fissata come un’icona senza tempo, quasi un fotogramma che aspetta ancora e ancora di scorrere sullo schermo della memoria.
Corsi e ricorsi: siamo nel 2006 e l’annuncio della prima Festa del cinema è imminente. Mi presento negli uffici parigini di Gilles Jacob, presidente del Festival di Cannes per anticipargli il progetto. Mi guarda scettico, ma alla fine acconsente ad esserne protagonista per la giornata inaugurale. Appassionato cineamatore, pone una sola condizione, venire a Roma con un suo breve corto di montaggio intitolato a colei che definisce Anna, lupa romana. Da qualche parte negli archivi della Fondazione Cinema per Roma quel documento esiste e meriterebbe una piccola riscoperta in onore della Magnani e del suo devoto estimatore.
Quanti l’hanno amata come lui, come noi tutti? E soprattutto cosa ha costruito il mito di Nannarella che il Times definì “Divina, semplicemente divina”? Suso Cecchi d’Amico, la sua migliore amica, autrice di molte delle sceneggiature che la videro protagonista così provò a dare una risposta: “Come si fa a definire il suo fascino? Non era bella, spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano. Aveva sempre le occhiaie, un colorito terreo e i capelli neri come non si può immaginare, della consistenza di una matassa di seta pesante. Le gambe erano magre e leggermente storte, era piccolina e forte di fianchi. Aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi. Dovunque entrasse e in scena, non guardavi altri che lei”.
Era nata a Roma il 7 marzo 1908 a pochi passi da Porta Pia, segno zodiacale pesci, figlia di padre ignoto e della sartina Marina che ben presto la affidò alle cure della nonna Giovanna Casadio e di ben cinque zie (con un solo maschio in casa, lo zio Romano) per stabilirsi oltremare, ad Alessandria d’Egitto dove trovò marito. Di fatto Anna visse così il primo lutto: “Ho capito – disse – che non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno”.
Studia per due anni pianoforte a Santa Cecilia, ma sceglie presto la strada della recitazione iscrivendosi all’Accademia diretta da Silvio d’Amico nel 1927 che di lei disse alla sorella: “Ieri è venuta una ragazzina, piccola, mora con gli occhi espressivi. Non recita, vive le parti che le vengono assegnate. È già un’attrice…”. Da qui uno dei paradossi ricorrenti della sua carriera: spesso è stata vissuta come un’attrice istintiva e spontaneamente “romanesca”, mentre il suo talento veniva affinato da anni di gavetta in palcoscenico, tra teatro leggero e prove drammatiche come ne La foresta pietrificata che Anton Giulio Bragaglia le cucì addosso nel 1938, dieci anni dopo la sua prima apparizione in scena nella compagnia con Vera Vergani prima attrice.
Alla sua vena da sciantosa renderà omaggio Mario Monicelli in Risate di gioia (1960), interpretato a fianco di Totò con cui aveva fatto compagnia negli anni della guerra in un duo memorabile. A spingerla al cinema è uno dei tanti che, pur inascoltato, perde la testa per lei, il suo capocomico Antonio Gandusio. È lui a trovarle una particina ne La cieca di Sorrento (1934), ma poco dopo Anna cede alle avances del celebre regista Goffredo Alessandrini che la sposa e la impone nel suo Cavalleria. Finisce sotto la lente della polizia segreta per le simpatie poco fasciste del marito, ma il matrimonio dura poco: lei si invaghisce di Massimo Serato (da cui avrà l’unico figlio, Luca), lui della giovanissima Regina Bianchi. Nel ’40 si separano ma il divorzio verrà solo nel 1972.
Intanto Anna Magnani è già un’attrice popolare: fa coppia con Aldo Fabrizi (Campo dei fiori), trova il successo con De Sica (Teresa Venerdì), deve rinunciare a “Ossessione” perché incinta, la sceglie Rossellini per il ruolo di Pina in Roma città aperta a fianco di Aldo Fabrizi. Oggi è difficile staccare l’immagine di quel capolavoro dalla sua reale sostanza, ma a riguardarlo ci si accorge che il regista miscela con abilità consumata attori collaudati e gente comune, una prima parte da commedia dell’arte con una seconda da capostipite del neorealismo.
Sulla carriera successiva dell’icona del nuovo movimento che trasforma il cinema italiano si potrebbero scrivere interminabili articoli: il successo trionfale di L’onorevole Angelina e l’Oscar de La rosa tatuata, la tempestosa storia d’amore con Rossellini e la parentesi divistica a Hollywood dove Eugene O’Neil la venerava, l’incontro con Visconti (Bellissima) e quello con Pasolini (Mamma Roma), il ritorno al teatro con Franco Zeffirelli e Gian Carlo Menotti. Infine la televisione con i personaggi di Tre donne scritti per lei da Alfredo Giannetti e il successivo 1870 che – scherzo del destino – andò in onda proprio la sera della sua morte.
Alla fine ci si accorge che, ad ogni titolo, rifulge la grandezza dell’attrice mentre la donna sembra sempre essere un passo oltre, indefinibile e segreta. Perché è forse questo che fa di Anna Magnani un mito: una donna assetata d’amore e sempre, dolorosamente in lotta con se stessa, mentre lo schermo ne faceva una dea dell’Olimpo. La sua stella brilla con la stessa luce nera di Maria Callas: una divina che non poteva trovare la pace se non nella sua unicità d’interprete, ma incapace di fidarsi di sè appena si spegnevano i riflettori
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