Alessandro Gassman: rumeno de Roma


Giornata conclusiva per il Festival di Roma, dominata nella mattinata dalla presentazione alla stampa dell’ultimo italiano in concorso, l’esordio alla regia di Alessandro Gassman Razzabastarda. Nel film, patrocinato da Amnesty International e musicato da Pivo e De Scalzi in collaborazione con il cantautore Francesco Renga, trasposizione di una pièce già portata a teatro dall’interprete e regista, Gassman interpreta il ruolo di un padre rumeno, criminale e spacciatore dal cuore d’oro, che nella periferia della Capitale – l’opera è girata a Latina – combatte una battaglia contro il degrado della realtà in cui vive per preservare il futuro di suo figlio adolescente (Giovanni Anzaldo). Il testo teatrale, Roman e il suo Cucciolo, era stato tradotto e adattato da Edoardo Erba sulla base di Cuba and his Teddy bear, (già interpretato nel 1986 da Robert De Niro) di Reinaldo Povo.
“Mi interessava raccontare una storia che mi aveva molto commosso – dice l’autore – sui margini della nostra società, dove italiani e rumeni si trovano tutto sommato sulla stessa barca. Quando penso a uno spettacolo teatrale principalmente disegno, poi cerco di dar vita a mondi credibili. Lo stesso ho fatto al cinema, utilizzando molti dei collaboratori che avevo incontrato durante la mia trentennale carriera di attore. Hanno lavorato tutti a prezzi assai modici, convinti della potenza del film”.

Come si è trovato a passare dall’altra parte della macchina da presa?
Ero avvantaggiato perché la pièce al teatro era stata già un successo, visto da 280mila persone. Ho sempre pensato che il mezzo cinematografico si adattasse alla storia, ma l’ho modificata e arricchita inserendo anche attori che a teatro non ci avevano lavorato, come Madalina Ghenea e Michele Placido, che non può essere qui oggi perché è già in tour con il suo Re Lear. Devo dire che dopo una settimana di riprese mi sentivo così a mio agio che mi sono quasi preoccupato per quanto le cose andavano lisce. Vedevo il terrore negli occhi di Federico Schlatter, direttore della fotografia, ma la verità è che il personaggio di Roman faceva già parte di me, per cui già avevo un peso in meno. Inoltre, era come se il film l’avessi già visto, era tutto nella mia testa, per cui il risultato finale è stato molto simile a quel che avevo immaginato nella mia visione originaria.

Papà Vittorio avrebbe apprezzato…
Penso proprio di sì. E’ un film senza orpelli che racconta una storia credibile, un degrado che esiste a Roma come a Napoli come nelle periferie di tutte le più grandi capitali europee. Gli sarebbe piaciuto il lavoro degli attori. Quando rappresentavamo a teatro una volta mi hanno fatto i complimenti per quell’attore rumeno, alto, con gli occhi azzurri. Non capivo a chi si riferissero. Era Matteo Taranto, di La Spezia, che è anche nel film. Tra l’altro Madalina mi ha fatto i complimenti per le poche frasi che recito in rumeno. Pare che siano comprensibili.

Ha scelto di girare in un bianco e nero piuttosto grezzo, lasciando a colori solo le parti dei sogni e dei flashback…
Mi ero preparato a questa domanda e potrei rispondervi facendo lo spiritoso. “Come, Federico, l’hai fatto in bianco e nero?”, oppure “Beh, avevamo finito i soldi”. La verità è che l’ho sempre immaginato così. A teatro non si poteva fare, per cui usavamo l’artificio di mettere un tulle nero davanti al palco, volevo che fosse difficile guardare quella realtà, che immagino appunto poco elegante e sbiadita. Sono attratto da quel che mi fa paura. Nel film ci sono scene che fatico io stesso a guardare, come quelle che riguardano siringhe e ferite. Inoltre, volevo girare in inverno ma per ragioni logistico-produttive ho dovuto farlo in primavera, per cui questa scelta mi ha dato la possibilità di simulare un’atmosfera fredda, usando con Schlatter la videocamera Red Epic, che ci ha permesso una visione estremizzata che entrava il più possibile nella storia e nei personaggi.

Una visione che forse ha anche del pasoliniano…
Pasolini manca a tutti. Pensi a me, che ho debuttato a teatro, con mio padre, su un suo testo, L’Affabulazione. Un trauma che non s’immagina, probabilmente l’origine di tutti i miei attacchi di panico. Se oggi fosse vivo, ci regalerebbe ancora storie e film meravigliosi, l’Italia sta cambiando molto velocemente e lui, che era sempre in anticipo sui tempi, saprebbe coglierne l’essenza alla perfezione. Ma non era una mia mira, non ci ho pensato. Mi sono ispirato più a L’Odio di Kassovitz, le periferie della Francia di allora sono simili alle nostre di oggi, non a caso anche lì c’era la scelta del bianco e nero. Con le dovute proporzioni, il mio film è un lontano parente di quello. Poi il lavori di Larry Clark, Kids, Ken Park, che mi hanno influenzato anche nel lavoro di regista teatrale.

Ha girato a Latina, con la collaborazione della Film Commission. Si dice sia la città più ‘nera’ d’Italia…
Questo aspetto in particolare non mi interessava. La Film Commission ha dato tutto il supporto possibile, tra alberghi, location e comparse. Mi interessava invece l’aspetto di città multietnica, e poi è piccola e senza centro storico, a parte la parte centrale del ventennio, riconoscibilissima, si può dire che in pratica è tutta periferia. Mi serviva un posto senza orizzonti, e poi devo dire che ci siamo trovati bene, è un luogo piacevole, anche se in alcuni momenti abbiamo temuto per la nostra incolumità. Per fortuna, eravamo molto in parte, per cui sembravamo parecchio minacciosi. Io ho preso 12 chili mentre Taranto, beh, era grosso già di suo!

17 Novembre 2012

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