ALDO LADO


Gli organizzatori del Ravenna Nightmare Film Fest sanno bene che la realtà può in ogni momento superare la fantasia e può essere terrificante più di ogni film dell’orrore. Per questo motivo hanno inserito nella programmazione di questa prima edizione due documentari che osservano da vicino il conflitto israelo-palestinese.
Un nesso tra l’horror cinematografico e l’attualità di questi giorni lo abbiamo riscontrato imprevedibilmente in un film italiano del 1971 ambientato a Praga nel contesto della Guerra fredda, La corta notte delle bambole di vetro di Aldo Lado. Esiste un tragico e suggestivo rimando tra i corpi straziati dei giovani africani annegati nel mar Mediterraneo (il nuovo Muro di Berlino) e quelli delle donne che vengono uccise nel film da un folle potere incapace di offrire un mondo vivibile alle nuove generazioni di qualunque continente.
Aldo Lado fa parte di quel folto gruppo di registi (Mario Bava, Antonio Margheriti, Riccardo Freda, Giorgio Ferroni, Ubaldo Ragona per citare quelli presenti nella sezione “Spaghetti Horror”) che negli anni ’70 fece fortuna con il cosiddetto cinema di genere. Oggi è un produttore esecutivo e in occasione della proiezione del suo film d’esordio qui al Nightmare, ha raccontato i motivi del declino di quel periodo aureo.

Da aiuto regista di Bertolucci per “Il Conformista” a regista di film di genere a produttore esecutivo. Come mai ha lasciato la macchina da presa?
Tra cinema e televisione ho girato circa un’ottantina di film, mi sembra di aver fatto danni a sufficienza! Ho cominciato scrivendo e apprendendo il mestiere di regista per poi dirigere i miei film in prima persona. A un certo punto, però, mi sono stancato di dover accettare i limiti imposti dalle produzioni e, così, invece di litigare per realizzare quei progetti ambiziosi che in ogni caso non ti fanno fare, ho preferito intraprendere una carriera diversa che comunque si basasse sulle esperienze precedenti da regista.

La sua rinuncia a dirigere è anche il segno di una crisi che ha investito il cinema italiano di genere?
Trent’anni fa si realizzavano più di 200 film a stagione. I registi, dei veri e propri artigiani, avevano a disposizione un budget di un certo livello e, cosa non trascurabile, potevano esordire più facilmente. In modo ciclico uscivano film che sfruttavano un filone narrativo: il peplum, il western, la fantascienza, l’horror, la commedia sexi e via dicendo. Si insisteva su un genere specifico e in quel modo si poteva fare esperienza senza pensare all’autorialità, a quell’autocompiacimento che invece sembra affliggere i registi di oggi. Adesso, il problema principale è che la quasi totalità dei film vengono pensati per la televisione e quindi si deve sottostare a regole restrittive che impediscono la proliferazione di generi diversi. I soggetti sono sottoposti a una censura più forte. Se ad esempio si vuole realizzare un horror è necessario creare delle immagini forti che però solo nelle sale cinematografiche troverebbero una piena valorizzazione. Se l’obiettivo finale è quello di un passaggio televisivo allora è inevitabile produrre qualcosa di qualitativamente inferiore e, dunque, è inutile scrivere soggetti alla Tarantino.

“La corta notte delle bambole di vetro” è il suo film d’esordio. Più che un horror sembra un manifesto politico pienamente aderente alla realtà di quegli anni caldi.
Nel 1971 era in atto una trasformazione culturale e politica che produceva forti conflitti. Nel mio film volevo attaccare il potere politico reazionario e la borghesia che cercava di resistere a quei cambiamenti. Per questo ho pensato in modo metaforico a una storia nella quale le vittime fossero tutte giovani donne che non sottomentondosi all’ordine precostituito venivano letteralmente addormentate e in seguito uccise. Anche il protagonista – Jean Sorel – subisce la stessa sorte perché non si arrende, perché vuole scoprire la verità. La critica accolse favorevolmente questo mio primo film ma non comprese il contenuto fortemente politico e sociale. Io, in realtà, criticavo i potenti che mandavano a morire, anche in tempo di pace, i giovani in assurde guerre e ho usato il giallo o l’horror come uno strumento e non come un fine.

23 Ottobre 2003

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