‘A Stranger Quest’, Andrea Gatopoulos: “Le mappe contengono l’idea del mio cinema”

Il documentario presentato al 41° Torino Film Festival ci racconta di David Rumsey, 80enne statunitense che, guidato solo dalla sua passione, ha realizzato uno dei più grandi archivi di mappe al mondo


TORINO – Raramente si trovano film in cui forma e contenuto riescono a dialogare alla perfezione come in A Stranger Quest, il documentario diretto dal giovane regista italiano Andrea Gatopoulos presentato nel Concorso documentari italiani del 41° Torino Film Festival.

Il film ci offre una testimonianza poetica e sfaccettata di David Rumsey, 80enne statunitense che, guidato solo dalla sua passione, ha realizzato uno dei più grandi archivi di mappe al mondo, un “poema” (come ama definirlo) che travalica i millenni e ci racconta in profondità di noi stessi, di quello che siamo e di quello che saremo. Rifuggendo gli stilemi del documentario classico, Gatopoulos costruisce un film che indaga nella vita di un uomo per interrogarsi sui quesiti più alti: sull’eredità che ogni persona lascia di se stessa e su come le nuove tecnologie possano aiutarci in tal senso.

Andrea, da dove viene questa fascinazione per le mappe, cosa ti attira di loro?

La mappa è forse l’oggetto più complesso che si possa pensare in relazione agli esseri umani, le mappe contengono in sé tecnologia, scienza, politica, geografia, cultura e contengono la storia, il dove e il quando. La tecnologia più sfaccettata e onnipervasiva, perché oggi abbiamo in tasche mappe dell’intero pianeta. Siamo mappati e le mappe sono la base di tutte le tecnologie del mondo. Mi interessano perché contengono anche l’idea del mio cinema, l’idea che la bellezza, l’artisticità, la forma siano il contenitore della storia, della politica, della cultura, della missione umana e del senso della vita. Dopo Happy New Year, Jim, stavo cercando di fare un film sulle Colonne d’Ercole e sul mondo di oggi, stavo facendo ricerca sulle mappe storiche, che erano piene di un grande mistero, il mistero dell’avventura umana quando ci si immaginava luoghi sconosciuti. Nell’epoca dei satelliti, questo sentimento non è più lo stesso, però l’ho ritrovato nei videogiochi, dove i gamer cercano il glitch, cercano i confini della mappa. Sono finito sul sito di David Rumsey e ho subito detto: ok, ho trovato qualcosa. Era qualcosa di non indicizzato, di artigianale, qualcosa che sfugge alle logiche dello sviluppo dei siti web e degli archivi, perché non c’è un’istituzione dietro. Non c’è idea politica, non c’è bias, non c’è scopo. Ero davanti a un’opera d’arte-archivio. Questa cosa mi parla tantissimo perché quando si parla d’archivio i film si iniziano a nutrire di mondi. Questa persona era quella che stavo cercando.

Sono suggestive anche tutte le sequenze ambientate nel videogioco Second Life, in cui David ha archiviato in una sorta di edificio digitale tutte le sue mappe. Il progetto era già in lavorazione quando hai incontrato David?

È la cosa che mi ha convinto a fare il film. Ho trovato la sua mappa su Second Life, mi sono scaricato il gioco e sono andato dentro. Mi sono trovato davanti a questo museo che era anche un mausoleo. Mi sono chiesto: quando questa persona morirà, tu potrai andare a vedere questo mausoleo digitale, questa tomba eterea. Questo si riallaccia alla mia idea, che la nostra è una tecnologia esistenziale, profondamente connessa della morte e col senso dell’aldilà. Soprattutto l’intelligenza artificiale, i videogiochi, gli avatar. Mi ha convinto perché ho capito che questo non sarebbe stato un film d’archivio che guarda al passato, ma un film del presente, che si costruisce tutti i giorni. Questa persona, nonostante l’età, cerca di stare sul bordo dell’abisso e del futuro.

Alcuni dialoghi sono così puntuali che fa pensare ci siano delle parti più prettamente di finzione. Come hai strutturato il film? Quanto c’è di scritto?

Volevo che il film avesse una sua linea narrativa. Ho scavato nella vita di David e ho trovato questo rapporto con il suo maestro morto, Jim. Ho trovato queste case sparse per tutto il continente nordamericano. Ho trovato questa sua grande nostalgia, questo rapporto con la morte e questa paura relativa a cosa accadrà alle sue mappe, tutto ciò costituiva un viaggio. Abbiamo pensato che il suo film potesse essere quasi un viaggio di commiato e di rapporto con i tuoi fantasmi. Questo è il viaggio, poi c’è la mappa di Monti, che sta ricostruendo, il museo su Second Life: il film si è costruito con lui, lo abbiamo costruito insieme, la cosa straordinaria è che David è americano e gli americani hanno questo grande senso della performance, un grandissimo senso del linguaggio. Tutti i monologhi del film sono assolutamente improvvisati, perché ha questa capacità di pensare, questa voce bellissima con cui descrive in diretta quello che pensa. Per me è stato un grande regalo. Sembrano monologhi cinematografici scritti e scritti molto bene.

Stupisce come il film decida di non usare mai primi piani – tipici del racconto documentaristico con le sue “talking heads” – ma solo sui campi. Queste inquadrature lunghe che guardano i protagonisti quasi spiandoli da lontano. Perché queste scelte?

Volevo che il film avesse un senso più ampio. Dal punto di vista narratologico l’ho rafforzato con l’idea di questo navigatore che si interroga sul suo passeggero. Non volevo fare un film celebrativo, agiografico, un biopic. Da qui l’idea della fotografia, che riprende l’arte barocca di questi nobili che facevano fare dei quadri alle proprie gallerie d’arte. Dipinti di dipinti. Ci è venuta l’idea di immagini che avessero dentro altre immagini e visto che i luoghi di David sono pieni di dettagli, di oggetti, sono luoghi archivio. Mi piaceva l’idea di girare un film come se fosse fatto da un cartografo. Mettendosi in un punto che potesse darti la possibilità di vedere tutto attorno a te, di poter leggere con una sola immagine il luogo e lo spazio. Anche per il suono, con Tommaso Barbaro, abbiamo fatto lo stesso tipo di lavoro. Il suono di A Stranger Quest ha un tipo di riverberazione che è sempre a metà tra la camera e il protagonista, come se fosse l’ascolto di un drone, un punto di vista quasi a volo d’uccello. Abbiamo cercato di mettere David in una sfera, non in un rapporto frontale con lo spettatore.

Sono molto struggenti anche i momenti con la moglie. Come è venuta l’idea di coinvolgerla?

C’era un problema cinematografico: considerando il fatto che il film non doveva avere interviste e non doveva avere un personaggio che racconta allo spettatore, senza filtri, la sua storia, non volendo fare qualcosa di televisivo, avevo bisogno che avesse degli interlocutori. Dato che il film doveva avere un’anima emotiva, perché più il film riesce a entrarti nel cuore più poi ti entra anche nella mente, ho deciso di coinvolgere la moglie, così come tutti gli altri personaggi, che sono le orecchie del film. Danno a David la possibilità di fare senza avere un impianto pubblicitario o autopromozionale. David è una persona anziana, di 80 anni. Abbiamo girato solo due-tre ore al giorno e le scene sono state fatte tutte una volta sola. Tutto il film è buona la prima, L’unico modo per mantenere questa sensazione di tempo reale e intimità che c’è nel lavoro era di avere un’atmosfera molto rilassata, di mettere tutti a casa, anche perché non potevo tagliare. Su questo lui mi ha dato una grande mano, perché ha capito come doveva essere il film, lo ha proprio imparato. Avendo fatto prima la parte intellettuale del lavoro, quando è arrivata la parte emotiva, David aveva capito perfettamente che film stavamo facendo: sapeva dove fermarsi, come utilizzare la voce. Era una sorta di attore: ha costruito lui il ritmo del lavoro.

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30 Novembre 2023

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