“La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie”.
Così parlò Mario Monicelli, il grande caposcuola di un periodo felice del nostro cinema, iniziato negli anni ’50, che ebbe come epicentro creativo Cinecittà.
La prima domenica di maggio si celebra La Giornata mondiale della risata ed è l’occasione perfetta per riguardare o incontrare per la prima volta i film, i maestri, le grandi stelle della cosiddetta Commedia all’Italiana, momento creativo unico per la nostra produzione, un filone capace di mettere a nudo le contraddizioni del nostro Paese e dei suoi cittadini, attraverso il detonatore della comicità.
Ridiamo insieme attraverso questa carrellata di 8 capolavori del cinema italiano.
Vera pietra angolare della commedia all’italiana, il film di Comencini coniugava perfettamente la tradizione neorealista con la comicità di stampo popolare, applicando per la prima volta in Italia la tecnica della commedia di costume hollywoodiana a un film ‘falso rustico’ per un intrattenimento d’evasione che conquistò le masse. E non solo in Italia. Anzi, non solo le masse, se si pensa che fu amato follemente dalla Regina Elisabetta e dai presidenti Perón ed Eisenhower, tra gli altri. La trama, esile ed essenziale, propone un galante maresciallo (Vittorio De Sica) attratto dalle belle donne che accortosi dell’inutilità del suo corteggiamento per una indiavolata popolana detta “la Bersagliera” (una selvaggia e dirompente Gina Lollobrigida) finirà con l’agevolare l’amore fra lei e un timido carabiniere, di cui è il superiore.
Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Totò: tutti insieme sul grande schermo per dare vita a una storia che segna la Storia del nostro Paese. Si ride amaro con le vicende goffe di cinque “disgraziati” che sulla base di una soffiata organizzano un colpo al Monte di Pietà: prendono lezioni da uno scassinatore in pensione (Totò), scavano un tunnel per arrivare alla cassaforte, ma finiscono nella cucina di un appartamento dove si consolano con pasta e ceci. Semplicemente il primo grande film della commedia all’Italiana e una delle opere monumento del nostro cinema in generale.
Ambientato nell’immaginaria Agramonte, in Sicilia, il barone Ferdinando Cefalù detto Fefè, (Marcello Mastroianni), stanco di dodici anni di matrimonio asfissiante con la moglie Rosalia e desideroso di vivere una relazione d’amore alla luce del sole con la cugina sedicenne Angela (Stefania Sandrelli) decide di servirsi del cosiddetto “delitto d’onore” per liberarsi definitivamente della consorte. Pietro Germi ricostruisce un pezzo della società italiana dell’inizio anni ’60 costringendoci a ridere con pieghe amare disegnate agli angoli delle labbra. il film fu un successo mondiale con premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, Golden Globe per il Miglior Film Straniero, il Miglior Attore in un film commedia e tanti altri premi prestigiosi.
Sospeso tra commedia all’italiana e dramma sociale forse rappresenta l’affresco più riuscito dell’Italia del boom economico e delle sue innumerevoli contraddizioni, incarnate perfettamente dai due personaggi: lo studente universitario un po’ timido Roberto (Jean-Louis Trintignant) e Bruno (Vittorio Gassman), un quarantenne immaturo, rampante, senz’arte né parte. Trascorrono insieme il giorno di Ferragosto a bordo di una Lancia Aurelia decappottabile attraversando strade assolate e un po’ desolate e soprattutto vivendo episodi tragicomici, fino all’epilogo impensabile e spaventoso. Un film che a distanza di 60 anni continua a essere parte delle nostre vite, anche di chi lo ha visto quando ormai quell’Italia non c’era più.
“I mostri” del titolo sono senza dubbio Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, ma sono anche tutti gli italiani del boom economico: ipocriti, meschini ed egoisti. “I mostri non sono solo in mezzo a noi”, sembrano voler dire gli autori di questo manifesto comicissimo e sadico dell’Italia anni ’60, “in molti casi siamo proprio noi”. È un mosaico di venti episodi, struttura spesso utilizzata dalla commedia all’italiana, che disegna una mappa terribile e divertentissima di un Paese all’apparenza placido e buontempone fatto, però, di genitori che educano i figli al crimine, falsi invalidi, pugili rintronati e una borghesia ridicola, meschina. Da vedere per ridere, malinconicamente, di come eravamo sessant’anni fa.
La commedia all’italiana è stata a lungo territorio maschile. Imperversano storie di uomini, raccontate da uomini. Gassman, Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, Sordi sono i colonnelli incontrastati. Poi nel 1968 di nuovo il maestro Monicelli sovverte lo schema. E allestisce un manifesto cinematografico femminista affidandosi alla gloriosa Monica Vitti, fino ad allora attrice impegnata e musa dell’esistenzialismo di Antonioni. Monicelli le consegna tra le mani una pistola, le cuce addosso un nuovo vestito da “comica” per farla partire verso la frizzantissima Londra così da lavare col sangue l’onore perduto. Ci sarà da ridere, e tanto.
Inizia un nuovo decennio (ultimo di splendore per la commedia all’italiana) ed Ettore Scola rivoluziona tutto, aggiorna il genere al colpi di pop e sottocultura di un paese che scricchiola: dai fotoromanzi alle canzonette leggere, passando per la narrazione televisiva che ormai impera. Racconta di un muratore schierato nelle lotte operaie Oreste Nardi (Marcello Mastroianni), con il fardello di moglie e figli, che si innamora di Adelaide Ciafrocchi (Monica Vitti), stralunata fiorista del Verano. Accecato dalla passione, abbandona la famiglia per vivere questa relazione clandestina. Il quadro si arricchisce presto di un nuovo elemento: Nello Serafini (Giancarlo Giannini), giovane e focoso pizzaiolo toscano. Grazie alla riuscitissima colonna sonora di Trovajoli, attori in stato di grazia (Mastroianni sarà premiato a Cannes) e colpi di genio di regia il film s’impone come uno dei più riusciti della new wave della commedia all’italiana.
Tesoro inestimabile del grande Monicelli è una storia di un manipolo di amici che non smettono di restare adolescenti anche se ormai non ne hanno più l’età. Occupano posizioni importanti nella società, quasi tutti almeno, ma si divertono a fare scherzi (le zingarate), e più ciniche, crudeli, goliardiche sono, più se la ridono. E noi con loro. Il bello delle zingarate, come dice il Perozzi (Philippe Noiret): “è questo: la libertà, l’estro, il desiderio…come l’amore. Nasce quando nasce e quando non c’è più è inutile insistere. Non c’è più!”. Amici miei è il canto del cigno della commedia all’italiana di qualità e un successo enorme di pubblico e di critica (Mario Monicelli e Ugo Tognazzi ottennero rispettivamente il David di Donatello per il Miglior Regista e il Miglior Attore Protagonista). Fu il film più visto di quell’anno e ad oggi detiene il ventunesimo posto nella classifica delle opere italiane più viste di sempre con quasi 10 milioni e mezzo di spettatori. Un cult assoluto, tra i più significativi della nostra Storia.
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