‘200 metri’, la paternità è una luce nella notte

Esordio alla regia nel lungometraggio di Ameen Nayfeh: è stato scelto come rappresentante della Giordania nella corsa all'Oscar per Miglior Film Internazionale 2021, esce in sala dal 25 agosto.


La notte e la luce sono visive e interiori, ambientazione e metafora in 200 metri, lungometraggio d’esordio di Ameen Nayfeh, film scelto come rappresentante della Giordania nella corsa all’Oscar per Miglior Film Internazionale 2021. 

Mustafa (Ali Suliman) – un mal di schiena cronico, tre figli, una mamma che vive nella casa di famiglia, una moglie, Salwa (Lana Zreik), e l’attesa di un permesso di lavoro – vive in Cisgiordania: di fronte, al di là di un muro, letteralmente tale – una barriera di separazione israeliana – vivono la moglie e i figli, con cui ricorrentemente comunica via telefono, ma soprattutto, spesso, con un intimo e personale gesto, quello di accendere e spegnere a intermittenza, reciprocamente, le luci di casa appena fa buio, così che l’uno palesi il proprio pulsare vitale agli altri e viceversa; l’intermittenza di una lampadina come il pulsare del cuore

Il film succede “oggi”, la televisione cita espressamente Trump e Netanyahu, ed è un oggi dal sapore politico internazionale quanto di un quotidiano che sa di famiglia e di fatica individuale dell’essere umano: quella di Mustafa è una circostanza relazionale felice, ma il muro fisico incide nelle pieghe del benessere matrimoniale, la tensione con Salwa non manca a più riprese, ma con una costante ricerca di unità, soprattutto da parte di lui. 

Majd, il figlio preadolescente e forse promessa del calcio, ma anche livido per le botte tra compagni di scuola, viene ricoverato d’urgenza, sempre “al di là del muro”: il documento di Mustafa per passare in Israele risulta scaduto, così, necessaria via per raggiungerlo, sono dei traghettatori clandestini. Qui s’innesca il cuore e la durata più estesa e intensa del film, quella sequenza di situazioni che concorrono a restituire attesa, fretta, ansia, tensione, incertezza, imprevisti, compromessi, posti di blocco. Nel viaggio – tra gli altri – tra i “compagni”, anche la bionda videomaker tedesca Anne (Anna Unterberger), di padre palestinese dice, e in quelle terre per fare un racconto documentario, complice un amico locale appena conosciuto, Kifah, anche lui bisognoso di “passare di là” per partecipare al matrimonio del cugino, come – ancora – il nemmeno diciottenne Rami, che cerca un futuro oltre quel limite fisico, ma con il richiamo verso casa nel cuore e nel panico. 

È dentro il baule di una macchina che i tre uomini – guidati al volante da Anne – sudano, ansimano, schiacciati l’uno addosso all’altro, e sperano, ignari di quello che sta accadendo lì, appena fuori, a macchina improvvisamente ferma. 

Ciascuno ha bisogno di oltrepassare quel muro per un bisogno, per un’urgenza, con una scusa, con una bugia e Mustafa, che ha l’emergenza forse più umana, quella di conoscere lo stato di salute di un figlio piccolo in un letto d’ospedale, intuisce subito l’enigma che anima Anne, ma altrettanto comprende sia l’unica senza cui non si potrebbe passare il posto di blocco. La chiave – prima dell’epilogo – sta in un dialogo tra i due: lui porta lei sul tema della confessione – tra etica e spirituale – spingendo a mettere sul piatto la verità che ciascuno abbia qualcosa da confessare. 

200 metri sono un’odissea di 200 chilometri infine, ma quello di Mustafa si rivela un viaggio, oltre che necessario, con una meta fisica e simbolica, seppur non stabile, come invece restano i giochi di luce – e d’amore – che continuano a illuminare le sue notti e quelle della sua famiglia. 

L’opera ha visto il suo esordio in anteprima il 3 settembre scorso alle Giornate degli Autori della 77ma Mostra di Venezia: esce in sala dal 25 agosto con I Wonder Pictures

 

22 Luglio 2022

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