LOCARNO – Il colore rosso immediatamente chiama alla mente passione, sentimento che ha un ventaglio di declinazioni che si disegna tra i poli estremi del male e del bene: scegliendo di intitolare un racconto, un film, Rossosperanza – scritto tutto attaccato – si accentua del colore, e di tutto l’universo emotivo che racchiude, la sua identità più oscura che però, appaiata al concetto di “speranza”, significa che non s’è accartocciata o ingabbiata su se stessa, ma tenta di inseguire una tensione dall’orizzonte meno buio.
E, infatti, Annarita Zambrano, per la sua opera seconda (che segue Dopo la guerra, 2017), partecipa in Concorso Internazionale con una storia che subito incastona i suoi protagonisti – Nazarena, Marzia, Alfonso e Adriano (Margherita Morellini, Ludovica Rubino, Leonardo Giuliani, Luca Varone; oltre a Elia Nuzzolo, Daniela Marra, Rolando Ravello e Andrea Sartoretti tra gli altri) – tra l’incudine e il martello del perbenismo borghese, qui in particolare degli Anni ’90: infatti, loro quattro sono tutti figli derelitti, quasi negletti – soggetti con patologie mentali di confine – di cosiddette persone “perbene”, come la figlia del medico del Papa. “Rossosperanza è nero come le nostre anime e rosso come il sangue che ha lavato i nostri peccati”, per la sua autrice.
Una quasi totale unità di luogo, Villa Bianca – anche qui non casuale scelta cromatica per il nome, colore che per eccellenza rappresenta la purificazione –, sontuosa dimora che accoglie i protagonisti e promette di applicare un metodo che li faccia diventare “normali”, perché “noi siamo uomini, noi non siamo animali”, gli ripete l’educatrice. Ma se non bastasse la gamma dei colori a raccontare le metafore, o comunque le simbologie, Zambrano sceglie di mettere in scena anche una fiera, una tigre, fuggita da dove non si sa, dunque “figlia di nessuno”, tanto libera, quanto affamata.
Nella storia, come in tutte le storie, ciascuno “recita” il proprio ruolo e così, anche in Rossosperanza, ognuno rappresenta un archetipo: guardando, amando, ballando. O anche uccidendo.
Annarita, nel film c’è una simbologia cromatica, leggibile ma non scontata, che per il titolo sceglie di sintetizzare con un unico vocabolo: da cosa deriva la scelta della parola portante e qual è la volontà rispetto alla simbologia tutta dei colori?
Il bianco è lì dove si lavano i peccati, ma il rosso invade tutto. E la speranza, che sempre è connessa al colore verde, per me in questo caso lo è al rosso, perché è attraverso questo sangue versato che si ricrea una speranza di libertà. È scritto tutto attaccato perché mi piaceva l’idea di una parola che non esistesse, è ovviamente inventata: è una parola di una dialettica che può appartenere a un giovane che l’ha creata, perché la speranza è connessa alla giovinezza, alla libertà, e io stessa ho sempre legato il rosso al concetto di passione, vita intensa, libertà, non lo lego alla morte, ma più alla pulsazione della vita. Il rosso mi ossessiona, anche con la presenza del disco rosso nel film: c’è stata tutta un’onda musicale techno, di etichette indipendenti che si stampavano i loro dischi da soli, un discorso rispetto alle case discografiche che volevano dominare tutto e da mandare a… stampandosi il proprio disco, rosso; quindi, il mio concetto è legato a una cosa reale e al tempo stesso simbolica.
Rimanendo nelle simbologie, oltre al colore sceglie anche quelle animali: la tigre, lo scarafaggio, il serpente e il cavallo. Perché questa fauna?
Sicuramente gli animali fanno da contrapposizione, stanno dalla parte dei giovani, che sono in qualche modo da rieducare, perché usciti dalla retta via, ma gli animali non si possono educare, soprattutto quelli che ho scelto io: lo scarafaggio non lo educhi proprio per niente, il pitone neanche, e la tigre è imprevedibile; e poi portano il concetto della ‘gabbia’. Il cavallo è qualcosa legato alla libertà e, profondamente, alla bellezza, perché io sento che questi ragazzi ne hanno di bella propria, interiore, e soprattutto vedono le cose che gli altri non vedono.
Ha scelto di collocare la storia negli Anni ’90, un tempo specifico: cosa aggiunge questo preciso periodo e l’ha scelto perché riporta a qualcosa di suo, che non ha dimenticato e che voleva raccontare?
Sicuramente penso che avrei potuto ambientarlo anche adesso con la situazione attuale, senza nessun problema, ma quelli erano anni in cui ero ragazza e che hanno anche una dimensione mitica legata alla musica, è stato un momento di passaggio molto importante, dal rock all’elettronica a qualcosa connesso alla ripetitività, ai sintonizzatori e quindi alla libertà, al fatto che la gente abbia cominciato a fare musica da sola, anche con lo smanettare dei deejay, e questo è qualcosa che si espandeva ai ragazzi; è il periodo appena dopo la caduta del Muro di Berlino, per cui c’era un vento di libertà che soffiava in tutta Europa; è due anni prima di Mani Pulite e l’anno in cui c’è il primo grande tradimento della Democrazia Cristiana in cui fanno fuori De Mita, per cui senti che sotto questo senso di festa cominciano ad apparire le prime crepe, e son brutte. Ci sono i primi tradimenti che porteranno a tutta la caduta della classe politica. È come se fosse un po’ la caduta degli Dei, quell’ultimo periodo in cui sbrigarsi a ballare perché sta finendo: col senno di poi è ovvio che tu veda cose che prima non potevi vedere; visto che non prevedo il futuro, almeno cerco di raccontare il passato per far eco al presente.
La storia è scura, ma lei sceglie un taglio più stemperato, non la porta sul drammatico assoluto. Perché questa scelta era più congeniale?
La storia è grottesca, perché quell’epoca è stata grottesca. Se si pensa che Walter Armanini è l’unico morto in carcere per cento milioni di lire perché s’era innamorato di Demetra Hampton, è grottesco: o Poggiolini – con i soldi nascosti nel divano – è morto nell’ospizio dei poveri. La dimensione profondamente grottesca è quella che mi sono portata dietro, è tragica, ma quello che è successo è stato così, come la violenza degli adulti – uomini, bianchi e di televisione – sui minori, insomma… è evidente sia illegale: c’è stato qualcuno che ha sbattuto delle ragazzine di 13 anni ‘nude’ in televisione, stiamo parlando di un inno alla pornografia e non si tratta di una questione benpensante, ma hai esposto queste persone e tante infatti sono cadute nel porno o in difficilissime situazioni, ma è ovvio, avevano pur sempre 13 anni! Questa situazione era di una violenza estrema, ma non è stata risolta, perché questo è il Paese che siamo, così ho dovuto trattare la storia anche come commedia, perché queste persone stanno ancora al potere: le persone che io metaforicamente uccido ‘mi danno gli ordini’ oggi, anche nel cinema. Sono quelli a cui vedevo regalare la Ferrari a 18 anni: quindi, o diventi un sovversivo e all’interno del potere stesso ribalti il potere che hai mangiato, oppure sposi il potere. Io posso fare cinema per la speranza.
La storia è stata ispirata da qualche fatto specifico, oppure è tutta frutto di fantasia?
No, quasi niente è frutto di fantasia. Più o meno sono tutte persone che ho frequentato: sono ‘unioni’ di più persone, trasfigurate, ma tutte le storie sono vere, compresa la tigre, che s’è pure mangiata un povero giardiniere albanese nella villa di uno di questi, che ovviamente non è mai stato denunciato; purtroppo, ho frequentato questo ambiente, stando male perché non riuscivo a capire e al contempo incontrando persone meravigliose, con cui eravamo esterrefatti: sono sempre stata molto lucida su quello che vedevo e ho incamerato, ero cosciente – nel momento in cui lo vivevo – che ci fosse qualcosa che non andava, veramente cosciente, e questo mi ha profondamente marcata. Io frequentavo una scuola di Destra, in cui erano tutti benestanti e c’era una morale dominante gigantesca, con i professori vecchi, tutti cattolici, con abusi di ogni tipo ma tutto nascosto, e questa era la buona borghesia di Roma: non parlo della mia famiglia in particolare, parlo del mio habitat, anzi i miei mi hanno sostenuta anche se il gap generazionale è qualcosa di difficile, però si sono dimostrati molto più aperti di quello che mi aspettassi, mi hanno lasciata a ruota libera, pur non capendo tutto si sono fidati. Comunque, io avvertivo la violenza, il maschilismo, le istituzioni vecchie che cozzavano col vento di libertà che si sentiva, e anche adesso mi sembra così: guardando i social, i ragazzi sono tutti binari, fluidi, è geniale questa cosa, però abbiamo un’altra posizione al governo, e io non riesco a capire; c’è una contraddizione tra la classe politica e poi tutta la classe giovane che sta su Instagram a sbandierare la propria libertà. Com’è possibile non ci sia un canale di comunicazione? Per esempio, in Francia, Marine Le Pin, è molto gay friendly, perché ha capito la convenienza, ma meglio così: se non lo fai per morale, fallo per convenienza, basta tu lo faccia. In Italia c’è il gap tra il potere politico che va in una direzione e la realtà – dei giovani senza futuro – dall’altra, senza un punto di contatto in mezzo.
Nei dialoghi del film insiste sul concetto di ‘normale’: cosa vuole puntualizzare, far emergere?
Il rientrare nei ranghi del potere costituito è considerato ‘normale’. I miei più grandi idoli sono Elio Petri e Marco Bellocchio, loro mi hanno insegnato cosa sia ‘normale’: ne I pugni in tasca il protagonista non è normale, ma chi è normale, mi chiedo? In Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto c’è un uomo che si rivolta contro il potere costituito: quindi, cosa è normale? Sicuramente è quel rango che sta al potere e patina l’Italia, c’è un ‘normale’ deciso da chi scrive la Storia.
Rossosperanza è prodotto da MAD Entertainment con Rai Cinema e Minerva Pictures, esce al cinema dal 24 agosto con Fandango.
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