Yomeddine, road movie “evangelico” dall’Egitto

In concorso l'opera prima del 33enne egiziano A.B. Shawky. Un film che nasce da una lunga esperienza in un lebbrosario a nord del Cairo dove il regista ha trovato lo straordinario protagonista


CANNES – “Il giorno del giudizio universale anche gli animali verranno giudicati? No, gli animali entreranno direttamente in paradiso”. E’ un breve dialogo che restituisce lo spirito umano e umanitario di Yomeddine, opera prima del 33enne egiziano (ma di mamma austriaca) A.B. Shawky, in concorso a Cannes 71. Un film che nasce da una lunga esperienza sul campo – la presenza in una colonia per lebbrosi due ore a nord del Cairo, la Abu Zabal Leper Colony – dove l’autore ha trascorso anni girando anche il cortometraggio The Colony. Il suo primo lungometraggio è un film volutamente ingenuo, quasi a misura di bambino, e per certi versi evangelico.

Beshai (Rady Gamal) è stato malato di lebbra e ne porta i segni sul volto e sul corpo, le sue mani sono quasi due moncherini, il suo viso è profondamente deturpato. E’ di religione copta e da quando suo padre l’ha portato nel lebbrosario ha sempre vissuto qui, protetto da amici e medici. Per mantenersi si arrangia rovistando nella spazzatura e rivendendo quello che trova, ferri vecchi o musicassette. Però, alla morte della moglie molto amata, ricoverata nel reparto psichiatrico della colonia, decide di partire mettendo tutti i suoi poveri averi (che qualcuno comunque tenterà di rubare) su un carretto trascinato dal suo fedele asino bianco per andare alla ricerca del padre che molti anni prima l’ha abbandonato. A lui si unisce Obama (Ahmed Abdelhafiz), un bambino ospite del vicino orfanotrofio. Il loro lungo viaggio verso il sud del Paese e lungo il Nilo, li porta a vivere molte difficoltà ma anche a fare incontri miracolosi, come quello con una specie di corte dei miracoli di mendicanti menomati che si mostrano solidali e gentili come nessun altro. Un viaggio tenero che in alcuni momenti – ovviamente con tutte le differenze del caso – ricorda le atmosfere di Una storia vera di David Lynch.

“Volevo dare un’immagine diversa dell’Egitto”, spiega il regista in conferenza stampa dove lo accompagna la produttrice Dina Eman, diventata sua moglie dopo le riprese (“abbiamo aspettato la fine della lavorazione per uscire insieme – spiega lei – e non è stato facile”). Yommedine, in arabo significa “giorno del giudizio”, e il film rivela un sottotesto religioso interessante e non convenzionale anche perché fa dialogare cristiani e musulmani. “La credenza vuole – spiega Shawky – che ci sarà un giorno del giudizio in cui tutti gli uomini saranno considerati come eguali e ciascuno sarà giudicato unicamente in funzione dei suoi atti e non per la sua apparenza. Una cosa questa a cui credono i personaggi del film che invece sono disprezzati e respinti dalla società”. E ancora: “Non ho risposte su questo aspetto, ma voglio raccontarvi un incontro che mi ha molto colpito: una donna nel lebbrosario una volta mi ha detto: ‘quando Dio mi ha mandato la benedizione della lebbra sono venuta qui’. E vi assicuro che non era sarcastica, parlava proprio di una benedizione. Questa è l’idea di umanità che hanno queste persone e questa è l’idea che spero ci sia nel film”.

Del suo protagonista che non aveva mai recitato prima in vita sua e che porta al personaggio una vena di preziosa autoironia, necessaria a non cadere nel patetico, il regista racconta: “Ho passato molto tempo nella colonia per lebbrosi e inizialmente avevo scritto la sceneggiatura attorno a una donna, ma era troppo malata per girare un film, solo dopo ho trovato Rady Gamal, una persona straordinaria, che ha contribuito molto alla narrazione con le sue idee. La sua storia non coincide completamente con quella del personaggio, anche lui ha trascorso quasi tutta la vita al lebbrosario, però ha buoni rapporti con la sua famiglia, sua madre e sua sorella, che vede spesso e non è stato abbandonato”. 

E’ stato un problema mostrare le cicatrici di Rady Gamal? “All’inizio volevamo mostrarlo lentamente al pubblico. Volevamo cominciare col far vedere le sue mani, poi mostrare solo una parte del suo viso ma, a poco a poco, ci siamo resi conto al montaggio che questo non era giusto e che il pubblico doveva comunque vederlo tutto”.

“Essere in concorso a Cannes – rivela il regista che ha tra i suoi autori preferiti i fratelli Coen – è una bella responsabilità. Sento la pressione di essere qui, accanto a maestri che mi hanno spinto a fare questo lavoro. Ma devo dire che io ho solo cercato di fare del mio meglio raccontando una bella storia, non avevo altre ambizioni, non miravo a un festival. Tutto è venuto naturalmente”. E Shawky racconta anche che Rady Gamal e il piccolo Ahmed non sono a Cannes solo per un problema di visto: “Il volo faceva scalo a Zurigo e loro avevano un visto solo per la Francia, quindi alla fine abbiamo dovuto rinunciare”.

10 Maggio 2018

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