L’esordio nel cinema di Yile Vianello è stato quando aveva appena 12 anni in Corpo celeste, opera prima di Alice Rohrwacher, presentata alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes nel 2011. Poi c’è stata una pausa lunga nove anni, fino a Semina il vento di Danilo Caputo, in concorso alla Berlinale 2020 nella sezione Panorama. Per Yile sono arrivati Il paradiso del pavone di Laura Bispuri, La bella estate di Laura Luchetti (attualmente nelle sale) e un ruolo piccolo, ma determinante ne La chimera sempre di Rohrwacher (che dopo la competizione all’ultimo Festival di Cannes, e il Silver Medallion Award al Telluride Film Festival, sarà nei cinema dal 23 novembre).
L’attrice oggi 24enne, nata in Brasile, cresciuta in Toscana in un ecovillaggio rurale e isolato, e da qualche anno trapiantata a Roma, dal Capalbio Film Festival dice a CinecittàNews che ciò che conta nel suo mestiere sono gli incontri umani, di essere felice dello spazio che si è saputa ritagliare nel cinema d’autore e che quello che dovrebbe fare un attore è cercare di superare le aspettative.
Yile, qui a Capalbio hai presentato La bella estate. Che esperienza è stata fare questo film?
Una sfida in molti sensi. A partire dal fatto che è un film d’epoca ambientato a Torino negli anni Trenta. Questo mi ha fatto riflettere su come hanno vissuto le donne prima della guerra. Mi sono basata anche sui racconti di mia nonna. Per me sono stati i punti di partenza. Laura è riuscita a mettere insieme le persone in un film che mi ha fatto crescere umanamente.
Sebbene sia ambientato nel 1938, il film ha una visione molto contemporanea.
L’idea di Laura è sempre stata di portare il testo di Cesare Pavese in un contesto attuale. La protagonista, Ginia, ha un’ossessione per l’immagine e parlando con Amelia (Deva Cassel) le dice: “Voglio che mi veda un altro e mi dica chi sono”. In questa frase c’è una grande corrispondenza con quel che avviene oggi sui social, dove servono i like e il consenso delle persone per riuscire a identificarti.
L’immagine è qualcosa alla base anche del lavoro di un attore. Come vivi il fatto che gli altri ti possano identificare attraverso i film in qualcuno che non sei tu?
È qualcosa che mi crea un conflitto interiore. In questo lavoro devi accettare di non poterti mostrare veramente per quello che sei. Avere un’immagine pubblica è qualcosa di fuorviante. Non sai cosa viene ricamato sopra. Mi imbarazza anche l’idea di fama, perché non la so giustificare. Fino a un paio di anni fa ho lavorato senza un percorso di studi preciso. Mi sono messa in progetti cercando solo di fare qualcosa di bello.
Hai esordito giovanissima in Corpo celeste. Di quella ragazzina cosa rimane?
Molto, soprattutto perché sono cresciuta senza una struttura accademica. Da lì in poi ho sempre seguito il mio lato istintivo, qualcosa di prezioso, e il regista a cui mi sono affidata. Ho paura di essere incasellata in dei metodi, mi piace anche il momento creativo e improvvisato di questo mestiere. Non sai mai fino in fondo cosa aspettarti dal tuo stesso lavoro. E quello che dovrebbe fare un attore è saper uscire fuori dalle aspettative.
Come andò l’incontro con Rohrwacher?
In modo casuale. Alice suona la fisarmonica e fa musica popolare, e allora suonava con la mamma di una mia amica. Io sono cresciuta in un ecovillaggio, un posto isolato e rurale. Lei venne lì e io e la mia amica facemmo il provino per il film. Solo che ero troppo piccola per il ruolo. Il progetto slittò di un anno per motivi produttivi e Alice mi ha richiamata dicendomi che mi voleva.
Credi al destino o alle coincidenze?
Credo non ci sia una strada prestabilita, siamo sempre noi a scegliere, Ma è come ci costruiamo la nostra identità, e tendiamo a fare le cose, che ci porta a tracciare il nostro percorso.
Com’è stato tornare a lavorare con Rohrwacher ne La chimera?
La mia è una parte piccola, ma importantissima. Ho ritrovato un’Alice nuova, e penso che questo sia il suo film più bello e maturo. Erano anni che diceva di volermi dare un nuovo personaggio da interpretare. Cercava quello giusto e io sono molto felice che mi abbia scelto per fare Beniamina. Poi lavorare con Josh O’Connor, anche se solo per due giornate, è stato incredibile.
Si parla molto di un momento importante per le donne nel cinema. Cosa ne pensi?
Non credo ci sia bisogno di sottolineare sempre la visione femminile e sbandierare la giustezza morale degli uomini nel considerare la donna. Sento profondamente che i gesti che vogliono mettere in evidenza alcune cose siano fini a se stessi. Con questo modo di far vedere che è importante dar spazio alle donne, ci si lava le mani dalle vere responsabilità di considerare di più il nostro lavoro con i fatti e non con le parole.
Che futuro vedi di fronte a te?
Mi sembra di aver imboccato un percorso molto ricco. Mi sono ritagliata un angolo nel cinema d’autore, simile a me. C’è bisogno di stimolare piccole scintille nei rapporti umani che ti portano a fare cose insieme. È nell’incontro con le persone trovo tanta ricchezza.
La competizione la senti o non ti preoccupa?
Sento più quella con me stessa. Faccio fatica a sovrastare gli altri. La recitazione è così soggettiva che ognuno deve e può trovare il proprio percorso. Vedo colleghi che cercano di fare tantissime cose, ma io penso a fare quelle giuste, bene e in maniera vera. Voglio continuare a lavorare con registi con cui mi trovo umanamente, senza creare immaginari che non rispecchiano la realtà.
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