È un film antistress, Perfect Days di Wim Wenders, Palma d’oro per il miglior attore a Koji Yakusho all’ultimo Festival di Cannes e nelle sale dal 4 gennaio con Lucky Red. Un film Zen, quasi una meditazione, con al centro un personaggio speciale, Hirayama, un uomo di mezz’età che vive solo, lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, colleziona foglie, cassette musicali, fotografie che scatta lui stesso, Legge libri che prende a prestito in biblioteca (Faulkner, Patricia Highsmith). Ha una vita semplice ma non banale, è attento a tutto, a ogni minimo particolare e sfumatura emotiva di tutti coloro in cui si imbatte. E’ un angelo, forse un angelo caduto, perché si intuisce che ha avuto un passato diverso ma ora ha scelto questo presente e lo coltiva con amore.
Il film è anche un elogio alla cura del bene comune, una lezione di civiltà.
Il singolo è parte di una società e tutto ciò che ci circonda – le strade, i parchi, le istituzioni – sono cose di cui ci occupiamo tutti insieme. È una grande nozione su cui la pandemia ci ha portato a riflettere, perché abbiamo vissuto l’isolamento. A Tokyo, a maggio dello scorso anno, mi sono reso conto che la gente, benché avesse vissuto il lockdown più lungo della storia, aveva maggior rispetto per il bene comune e per la bellezza rispetto a noi europei. La zona dove vivo a Berlino, invece, è stata devastata e un piccolo parco è diventato una discarica. È così che è nato in me il desiderio di fare un film in Giappone.
L’attore e il personaggio sono quasi una cosa unica.
Kôji Yakusho lo conoscevo bene, avevo visto molti dei suoi film, tra cui Shall We Dance e Unagi. È uno dei più grandi attori viventi e ha un enorme cuore, c’è qualcosa nel suo sguardo che mi ha sempre attratto. Ho scritto il film per lui. Non potevamo parlarci direttamente, perché nessuno dei due conosce la lingua dell’altro, quindi avevamo bisogno dell’interprete, ma sul set abbiamo comunicato con gli sguardi, i gesti, e ci siamo capiti bene, imparando a comunicare senza parole. Lui per me era Hirayama e lo chiamavo anche così, anziché col suo nome. Era come fare un documentario su un personaggio di finzione. Non abbiamo fatto prove, si parlava brevemente della scena e poi si girava subito dopo, come si fa in un documentario. Piano piano ti rendi conto che quest’uomo non ha sempre fatto l’addetto alle pulizie, ma non c’era bisogno di dare troppi indizi, solo qualche indicazione sul suo passato, come quando arriva la sorella su una limousine, e capisci che lui era ricco, una persona privilegiata, e che dev’essere accaduto qualcosa per cui ha scelto questa vita.
Ha fatto la scelta di vivere una vita più semplice, essenziale.
Ha una vita semplice ma è attento a tutti e tutto. È invisibile per molte persone che usano i bagni pubblici ma lui vede tutti e per lui tutti sono uguali, rispetta tutti e anche alla mancanza di rispetto risponde con gentilezza e non con rabbia. Sa chi è, è felice di essere se stesso e ha un grande cuore.
La sua vita è fatta di routine con poche variazioni.
Ha una routine molto rigorosa e piano piano capisci che questo è ciò che gli dà struttura, non è noiosa ma la riempie ogni giorno di senso. Vive nel qui ed ora e questo gli dà molta libertà, con l’attenzione a ogni piccolo cambiamento. Nella nostra società diamo alla parola routine un significato negativo – come di qualcosa che facciamo senza pensare, automaticamente – ma non è così, in questo caso è un rito, ogni momento è nuovo e lui è presente in tutto quello che fa.
Ha scelto un linguaggio cinematografico estremamente semplice e rarefatto.
Se faccio un film su qualcuno che semplifica la sua vita e che ha ridotto i suoi possedimenti a pochissimi oggetti, anch’io devo semplificare il mio linguaggio. Ho girato tutto il film sulle spalle del mio direttore della fotografia, Franz Lustig, non ci sono carrelli o steadycam. Abbiamo girato in pochissimo tempo, 17 giorni, con poca luce, con inquadrature vecchio stile che fanno pensare a Don Camillo e Peppone oppure al cinema muto. Hirayama per me è in qualche misura un monaco zen, la sua filosofia di vivere qui ed ora ha una lunga tradizione in Giappone.
Come si sente a rappresentare il Giappone alla corsa agli Oscar?
Sono abbastanza orgoglioso. Anche se è una scelta insolita. Sono rimasto scioccato quando l’ho saputo dai miei produttori giapponesi. E’ una bella responsabilità per me, come tedesco, ma poi ho capito che l’avevano fatto soprattutto per l’attore, che è un eroe nazionale in Giappone, un artista amatissimo.
Dove va il cinema mondiale dopo la pandemia?
Nei primi mesi dopo il lockdown, i cinema erano vuoti, ma oggi stanno recuperando: in Germania, Francia e Usa, il pubblico è tornato. Ci sono tantissimi giovani. Sono stato a Parigi e ho visto fare il tutto esaurito a Le Samourai con Alain Delon, all’ultimo spettacolo, a mezzanotte. Nonostante il pessimismo, credo che la voglia di cinema sia tornata.
La musica è molto importante nel film, anche con le cassette che il protagonista ascolta mentre guida.
Quando scrivevamo la sceneggiatura con Takuma Takasaki, senza tanto riflettere, ci è venuto naturale pensare che Hirayama ascoltasse delle audio cassette. Vive con poco e con cose riciclate. Ha senso che abbia conservato le cassette di quando era giovane. Quanto alla musica che ascolta, come Lou Reed e Patti Smith, non volevo imporre i miei gusti a un personaggio giapponese, ma Takuma Takasaki mi ha detto che negli anni ’70, quando era giovane, ascoltava esattamente la stessa musica. In Giappone sta tornando la cultura delle audiocassette e vengono vendute anche a prezzi molto alti. In fondo il film è la compilation di Hirayama.
Questo è certamente il suo film di maggior successo da alcuni anni a questa parte. Come lo spiega?
Il linguaggio del cinema contemporaneo per molte persone è diventato troppo complesso e c’è una ricerca di uno storytelling che non sia così violento e d’impatto sullo spettatore. Dopo la pandemia stiamo ridefinendo il nostro modo di vivere, vogliamo una vita più serena, più lenta, e il cinema è il luogo giusto per riconsiderare tutto questo. Perfect Days riflette questo desiderio di rallentare.
Tokyo è un personaggio del film, con la sua compresenza di innovazione e tradizione.
La prima volta che sono andato a Tokyo, a metà degli anni ’70, era un paese molto distante dall’Europa, ma mi sono sentito subito a casa, come se fossi sempre stato là. C’era la modernità di grattacieli e videowalls ma anche le zone residenziali che sono come piccoli villaggi. I giapponesi hanno vissuto tempi molto duri, ma sono un popolo gentile e disciplinato, oggi Tokyo è una delle città più pulite e accoglienti del mondo, un posto dove ti senti al sicuro, dove non verrai mai derubato o aggredito, se sei una donna puoi stare tranquilla. È piacevole non avere paura.
Il tema della speranza è uno dei temi forti che affronta.
Ci sono molte minacce e motivi per avere paura. Non posso separare i miei film dalla mia percezione del mondo. Adesso tutto è accelerato enormemente, grazie alla rivoluzione digitale e alla comunicazione sui social, tutto è travolgente e veniamo a sapere tutto in tempo reale. Durante la pandemia speravamo di andare verso la pace e la tranquillità, ma è successo l’opposto, ci sono guerre vicino a noi. Gli esseri umani devono pensare se è questo il mondo che vogliono lasciare ai loro figli e il cinema può avere un ruolo importante nel dare dei modelli. C’è in noi un desiderio utopistico di un modo di vivere più semplice, meno consumista.
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