BERLINO – La regista canadese di origini tunisine, Meryam Joobeur, si era fatta notare nel 2020, quando il suo cortometraggio Brotherhood, diretto due anni prima, venne selezionato agli Oscar. Nel breve racconto, una famiglia del nord della Tunisia affronta la decisione dei figli di unirsi all’Isis e andare in Siria a combattere. Who do I belong to, in concorso alla Berlinale 2024, è l’espansione di questa storia, arricchita di un taglio tra magia e realtà.
Lo spunto infatti lo fornisce la storia del luogo, che dal 2011 ha visto oltre 5000 tunisini lasciare le proprie case per unirsi a efferate organizzazioni terroristiche. Centrale però è lo sguardo della madre sui propri figli, che decidono scientemente di abbandonarla provocando un dolore senza fine. Salha Nasraoui torna nel ruolo che già fu suo nel cortometraggio candidato all’Oscar, qui caricato di un pathos ancor più evidente. È a lei che il padre dei ragazzi, Brahim, dà la colpa dell’accaduto. Il suo amore li ha resi deboli, sostiene l’uomo, ostaggio di ideologie che con facilità si sono fatte strada nella loro testa. Ancora al suo fianco è però il più piccolo dei figli, Adam, a cui si aggrappa con disperazione.
In Who do I belong to, il dolore di una madre crea un mondo alternativo; fatto di sogni profetici e fondi di caffé. Sulla ceramica delle tazzine, la donna aveva già letto di un terribile futuro, poi divenuto realtà. Al corto, Joobeur aggiunge un elemento di realismo magico – non l’ha ricercato, sostiene – che spazia tra i generi, tenendo in profondità le radici della tragedia greca ma inquadrandole di volta in volta con sguardi horror o realisti, tra contemplazione placida e irruenta follia. La transizione è sempre troppo netta per poterla prevedere, e la violenza di alcune scene arriva inaspettata, travolgendo lo spettatore. La colonna sonora di Peter Venne è un supporto importante alla regia di Joobeur, che chiede al sound design di scandire suoni quasi alieni, simbolo di un dramma che esce dalla realtà sino a trasformala in puro terrore.
La messa in scena si avvale di un’ispirazione chiara, la still photography, dove il movimento è negato per lasciare che il soggetto al centro dell’immagine non venga mai lasciato indietro. La regista ha raccontato di aver cercato di restituire una storia attraverso ogni inquadratura. “Dovevamo perciò restare vicini ai protagonisti”, ha riferito. Nel “come” però c’è il cuore del racconto. Ad esempio, il marito Brahim è sempre inquadrato con un’angolazione a tre quarti, che ne sottolinea perentoriamente il ruolo quasi da nemico rispetto al dolore della donna abbandonata dai figli.
Il film tiene sempre al centro le donne, chiedendo a loro di guidarci in un dolore che arriva con grande precisione. Assieme alla madre, condividiamo in un secondo momento – chiave del film, che cambia a metà percorso – anche la prospettiva della nuova moglie di Mehdi (Male Mechergui), uno dei figli scomparsi tornato a casa dalla Siria con una donna che non proferisce quasi nessuna parola. Dal volto coperto dal niqab, intravvediamo gli occhi di Dea Liane, che riesce a trasmette l’intensità del ruolo solo ruotando lo sguardo come fossero mani agitate nel vuoto o parole appena sussurrate.
“Volevo esplorare questa storia, che è comunque una vicenda corale, attraverso gli occhi di queste donne”, spiega la regista Meryam Joobeur. “Per me è stato un viaggio di accettazione del dolore: cerchiamo sempre di scappare dalle emozioni negative, che però ci mangiano dall’interno. La vita è sfida, è così. Il dolore non scompare”. Tra le sofferenze di questa madre, in lotta per riscoprire il figlio che credeva ormai perduto, anche la difficile condizione del perdono: “È un film che racconta anche come affrontiamo le cose che non vogliamo vedere nelle persone che amiamo”, ha chiosato la regista.
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