‘We are who we are’, Guadagnino ‘espanso’

Dal 9 ottobre su Sky Atlantic l’attesa serie diretta da Luca Guadagnino


Dal 9 ottobre su Sky Atlantic – anche in 4k HDR con Sky Q Statellite – e in streaming su Now Tv, oltre che on demand, sarà disponibile l’attesa serie diretta da Luca Guadagnino, We are who we are, storia di formazione con protagonisti due adolescenti americani che, insieme alle loro famiglie composte da militari e civili, vivono in una base militare americana in Italia.

Fraser (Jack Dylan Grazer) è un quattordicenne introverso, che da New York si trasferisce in una base militare in Veneto con la madre Sarah (Chloë Sevigny) e la compagna Maggie (Alice Braga), entrambe in servizio nell’esercito. Jordan Kristine Seamón interpreta Caitlin, adolescente apparentemente spavalda, vive nella base da anni ed è la figura leader del suo gruppo di amici. Il formato seriale porta Guadagnino a scardinare i limiti della sua comfort zone a confrontarsi con una storia corale, dove però si impianta bene il suo stile attento ai ritratti psicologici di grande impatto, oltre che a uno stile visivo d’effetto.

E’ come se Chiamami col tuo nome si espandesse approfondendo ogni aspetto che non sarebbe stato possibile trattare in sole due ore di film. Mentre Caitlin mette in discussione il suo lato femminile interrogando una possibilità di mascolinità, Fraser ha una cotta per un ragazzo più grande, Jonathan, collaboratore di sua madre Sarah. Le prime esperienze amorose avranno un effetto dirompente nelle loro vite.  “Tutto è nato nel gennaio 2017 – dice Guadagnino – immediatamente dopo il successo al Sundance Film Festival di Chiamami col tuo nome, il produttore Lorenzo Mieli mi chiese se l’idea di una serie sulla fluidità di genere, ambientata in un tipico sobborgo americano, poteva interessarmi. In generale non sono molto attratto da quel che gli anglosassoni chiamano “topic”, cioè da quei soggetti sensibili da trasformare in narrazione, ma l’idea di rappresentare una comunità americana mi incuriosiva molto, mi spingeva a uscire dai binari per scoprire e percorrere nuove strade. Non so perché, mi tornò in mente l’infanzia di Amy Adams, l’attrice mi aveva raccontato anni fa che, essendo figlia di un militare, era nata e cresciuta per alcuni anni nella base americana Ederle di Vicenza. Quel ricordo fu in qualche modo una fonte di ispirazione che mi portò a pensare: e se invece di raccontare la periferia americana, che ormai è quasi uno stereotipo del cinema indipendente, immaginiamo una comunità molto specifica come quella di un gruppo di soldati espatriati all’estero con le loro famiglie? Un microcosmo di militari che ricrea la propria America fuori dai confini del proprio Paese, per esempio in Italia… Da questa idea è nata una bellissima collaborazione con Francesca Manieri e Paolo Giordano che, ancora prima del mio coinvolgimento nella serie, avevano già iniziato a lavorare su un soggetto. Il mio contributo allo sviluppo della sceneggiatura è stato soprattutto quello di dire: non limitiamoci alle azioni, al plot, ma concentriamoci sui personaggi, cerchiamo di aderire in maniera profonda al loro comportamento, come faceva Maurice Pialat, un regista che contrariamente ad altre figure opache o minori del mondo cinematografico, rifiutava di incatenarsi a dei paradigmi di “reductio ad unum” e celebrava invece la libertà. In We Are Who We Are non c’è solo l’influenza del suo Ai nostri amori, sono stato anche ispirato da altre sue opere meravigliose, come Sotto il sole di Satana, un film tratto dal romanzo di Bernanos che gli valse una Palma d’Oro fischiata a Cannes nel 1987 e per il quale è stato parecchio infelice. Mi piace pensare che la sua visione disincantata del sacro o la sua capacità di fare emergere il sacro in un mondo di corruzione abbia influenzato anche alcune parti della narrazione di questo racconto di formazione, in particolare la costruzione di alcuni personaggi, come quello di Danny. Vorrei chiarire un equivoco: quando penso di fare un omaggio a un cineasta che amo non vuol dire che l’unico mio paradigma o l’unica mia prospettiva sia rifare un suo film per appropriarmene o imitarlo. Il mio desiderio di celebrare un autore nasce dall’incontro emotivo, intellettuale e morale con delle figure maestose come possono esserlo Maurice Pialat, Chantal Akerman o Bernardo Bertolucci. Avendo divorato i loro film e le loro interviste, il mio omaggio è una sfida a ragionare, in un confronto ideale, con dei maestri che sento di poter interpretare grazie alla conoscenza del loro sistema intellettuale. Lo spirito di Maurice Pialat aleggia su tutta questa serie che amo definire un “film” in otto atti, e infatti, durante lo sviluppo della sceneggiatura e la costruzione dei personaggi, era diventato il nostro punto di partenza e di arrivo. Così, con grande pazienza, ricerca approfondita sul mondo delle basi militari e rigore infinito nei dettagli, la nostra galleria di personaggi ha preso vividamente forma: i ragazzi, le famiglie, il microcosmo militare… Pensando anche al cinema corale di maestri come Demme, Altman, Rossellini o Fellini, in cui ogni personaggio, anche il più piccolo, era talmente vero da rimanere impresso nell’immaginario collettivo, abbiamo cercato di dare una dignità a tutti senza creare una gerarchia rispetto all’importanza degli attori o dei personaggi. Mi piace pensare che We Are Who We Are sia una sorta di commedia umana che racconta come, ai giorni nostri, un gruppo di espatriati in una base militare vive le proprie idiosincrasie, desideri e nevrosi. Alcuni penseranno che ho dipinto un microcosmo utopista, ma in realtà racconto un mondo che riflette quello che siamo oggi, perché limitarsi a rappresentare soltanto la media di tutto ciò che accade nel reale? Fin da bambino, ho sempre rifiutato istintivamente questa lettura, questa interpretazione della vita. Se la serie è politica è perché in qualche modo apre lo sguardo sull’altro e dà voce, in modo meno edulcorato del mainstream, a una molteplicità di caratteri che sono piuttosto invisibili o poco rappresentati sugli schermi”.

 

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03 Ottobre 2020

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