BARI – Un sentito e prolungato applauso lo accoglie, mentre entra e sale sul palco del Teatro Petruzzelli, poi lui sospira per prendere coraggio e raccogliere l’emozione, si siede, e infatti dice: “sono molto emozionato” accennando a parlare in italiano, e affermando – senza tono didascalico o affettato – che, quelli italiani “sono una cultura e un cinema di cui sono innamorato“.
Lui è Vincent Perez, attore e regista, di cui il magnifico Teatro barese nella mattinata ha proiettato il suo film Alone in Berlin (2016) – con Emma Thompson, Brendan Gleeson e Daniel Brühl -, cuore centrale dell’incontro, che anticipa poi la serata, con Perez ancora protagonista, perché riceve il Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence, consegnato dalla nipote del Maestro, Francesca Fabbri Fellini, a cui segue la proiezione del suo ultimo film, Un affaire d’honneur.
È il prestigioso intellettuale e critico francese Jean Jili a moderare l’incontro che, con modestia, ammette il film gli fosse sfuggito e non ne avesse sentito parlare, seppur avesse fatto ricerche su quel periodo (quello del Secondo conflitto mondiale).
E da qui prende il via il racconto, tra cinema e intimo famigliare di Perez. “Io ho papà spagnolo e mamma tedesca e questa storia parte un po’ dal mio vissuto: sin da bambino ho fatto ricerche sulla mia famiglia e ho esplorato anche il passaggio nella guerra. Per parte materna, sono figlio della Germania, e nella ricerca ho scoperto il libro di Hans Fallada, con cui ho trovato molte affinità con il vissuto dei miei nonni”.
“Sono nato in Svizzera nel ‘64, lontano dalla guerra, ma nel crescere ho voluto conoscere di più della mia famiglia, esplorando oltre la mia discendenza. Nel film è interessante lo scorrere del tempo: c’è una sorta di separazione tra la guerra e il quotidiano, la coppia protagonista vive piccoli atti di coraggio quotidiano capaci di salvare la vita, che danno la dimensione dell’eroismo quotidiano. Mio nonno era spagnolo, anti franchista, ed era stata scoperta una lettera in un archivio vicino a Valencia, che mi ha permesso di avere una continuità tra la mia vita e il film”.
Perez poi si sofferma sul debutto berlinese del film che ricorda come un trauma. “L’accoglienza fu disastrosa e quasi violenta: non era stato apprezzato fosse in inglese, fatto da stranieri, ci siamo messi un po’ nella bocca del lupo. È stato uno dei momenti più difficili della carriera, in cui ho davvero patito. Però, dopo la prima a Berlino abbiamo fatto una tappa ad Atlanta, al festival del cinema ebraico, presenti 5000 persone: ero nervoso e scottato dalla Berlinale, ho aspettato la fine del film per entrare in sala, poi c’è stata una conversazione: una donna si alza e mi dice ‘come possiamo fare affinché il mondo intero veda questo capolavoro?’, e lì è come se mi fossi un po’ curato dopo la scottatura berlinese”.
Jili domanda a Perez come sia avvenuta la ricerca degli attori e dei luoghi, per restituire la verità.
E Vincent Perez racconta che “le riprese sono durate 10 settimane. Per questioni di autorizzazioni e finanziamenti abbiamo girato per lo più a Berlino, a parte una zona al confine con la Polonia, una città fantasma: abbiamo avuto la fortuna di mettere in vita questi luoghi, con la sensazione di convivere con questi fantasmi del passato. Abbiamo visto Roma Città aperta o Il tamburo di latta, come ispirazione, utile a dialogare con l’equipe del film. Un elemento che ho cercato di evidenziare è stato l’isolamento; come negli appartamenti del palazzo, le cui scale sono l’elemento costante: c’è infatti la scena in cui Brühl viene gettato giù, simbolo della caduta del Nazismo”.
“Emma Thompson ha accettato immediatamente: sconvolgente e magica, questa cosa, per me. Il libro era stato scritto nel ‘46, ma solo nel 2010 tradotto in inglese: questo ha permesso di accedere ad attori di tale fama. Ho incontrato Emma una volta, c’è stato feeling; lo stesso con Gleeson. Con Daniel Brühl è stato interessante, perché ha una storia simile alla mia, lui è metà tedesco e metà spagnolo, una similitudine non ricorrente”.
Jean Jili commenta che Alone in Berlin fosse un film necessario per Perez. Riflessione a cui il regista risponde spiegando che “gli interpreti si sono resi conto si trattasse di una storia vera: hanno colto la necessità personale. Da questo film, ho capito che bisogna avere rispetto per gli antenati, e io ho cercato di dar loro voce: è qualcosa che personalmente fa crescere nella vita, fare questo film mi ha cambiato”.
Pensando al presente stretto, all’attualità del cinema, viene chiamato in causa La zona di interesse, film vincitore dell’Oscar come Miglior Film Internazionale, e per Perez, questo, “è un cinema che ti cambia e ti trasforma, quando usciamo dalla sala dobbiamo portare con noi qualcosa. Una cosa per me interessante è la forza del diniego: c’è desiderio di applicarlo da parte di alcune popolazioni, e a me è interessato esplorarlo col mio film”.
Infine, soprattutto parlando “a quattr’occhi” con gli studenti presenti in sala, Vincent Perez lancia un messaggio: “non abbiate paura di avere il vostro pensiero indipendente dal resto del mondo, ascoltate il vostro cuore e andate controcorrente. Questa – di Alone in Berlin – per me è stata un’esperienza liberatoria, ma adesso è il momento di andare avanti”, conclude.
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