‘Vermiglio’, affresco poetico tra codici antichi e sussurri d’infanzia

Maura Delpero in Concorso, per cui “il film è nato da un moto dell'anima, la morte di mio padre, che m’è apparso in sogno, quando aveva 6 anni, nella casa d'infanzia”. Tommaso Ragno, Martina Scrinzi, Carlotta Gamba, Sara Serraiocco, tra gli interpreti principali. Il film al cinema dal 19 settembre con Lucky Red


VENEZIA – Il poetico e cristallizzato dipinto di un tempo passato, l’esistenza frugale di una modesta famiglia tra le montagne trentine sul finire del secondo dopoguerra, una fotografia sociale e intima: Maura Delpero firma Vermiglio, opera seconda, film in Concorso. “Il mio metodo di lavoro non guarda mai fuori, ma sempre dentro: cerco di mettermi in ascolto con l’inconscio, e questo film è nato da un moto dell’anima, nato da un evento triste, la morte di mio padre, poi felice perché m’è apparso in sogno, quando aveva 6 anni, nella casa d’infanzia. E così ho cominciato a seguirlo…, in un tempo che non ho conosciuto: qualcosa di molto intimo, in uno spazio molto libero. M’interessava raccontare un mondo per cui c’era l’idea dell’affresco storico e sociologico: era un mondo più di necessità ma io credo ci fossero anche dei desideri, c’era solo meno modo di esprimerli. È un film sulla guerra senza la guerra, è fuori campo. La guerra è come un sassolino che arriva nell’acqua, che crea cerchi intorno, il film racconta le schegge della guerra, come questa influenzi la vita di tutti, anche di quelli che rimangono a casa”, spiega la regista.

Una mamma (Roberta Rovelli), angelo del focolare stremato dal costante stato di gravidanza; un papà (Tommaso Ragno), maestro elementare e cultore della musica classica; con figlie e figli più adulti e più piccoli, neonati, sepolti, o ancora da mettere al mondo, ciascuno con il proprio temperamento, la propria psicologia, i propri talenti e i propri ardori. Così spicca Lucia (Martina Scrinzi), che s’innamora di un disertore siciliano, Pietro (Giuseppe De Domenico): romanticismo, senso dell’onore, dramma. “Ho avuto un approccio molto pratico al personaggio, ho letto libri sulla Val di Sole negli Anni ’40, conoscendo il calendario rurale, poi ho imparato a mungere e ricamare, e il dialetto. Io vengo dal teatro per cui era davvero importante l’approccio con la regista, un approccio molto intimo, bello” per l’interprete trentina.

Poi ci sono le sue sorelle, Ada, che amerebbe poter studiare, ma il papà maestro la diploma a pieni voti con l’eccellenza in economia domestica…, qualcosa di riduttivo per il suo slancio, che è anche un impeto istintivo, per cui si sfiora con la personalità ribelle di Virginia (Carlotta Gamba) e, al contempo, si autoinfligge delle penitenze; e poi c’è “la prediletta”, Flavia, bambina curiosa e talentuosa, quella su cui il maestro dice espressamente alla moglie possano investire per lo studio, perché una, solo una, possono permettersi di “mandare avanti”, in collegio a Trento. E poi c’è Dino, il più grande tra i figli maschi, altrimenti tutti bambinetti, in perenne attrito con la figura paterna, di contro luminoso agli occhi della mamma. Con loro la zia paterna, interpretata da Orietta Notari.

Per Tommaso Ragno “quello del film è un codice di comportamento che non conosciamo più o abbiamo solo sentito dire… io dal mio bisnonno, e a ridosso del film mi sono tornati alla memoria alcuni racconti, che da bambino non capivo o detestavo. L’elemento dei personaggi spinti dalla necessità è uno dei punti su cui il personaggio è stato costruito volta per volta, su un codice non scontato: il film ha la forza nei comportamenti e la natura del personaggio sta nel non essere padre in sé, ma un certo tipo di padre: infatti, importante è stato vedere come sia visto dai figli. Non ho un metodo (per preparare un personaggio), ma mi sono fatto rapire dal tono della voce antica di Maura che raccontava, creando intimità. Quella famiglia ha una caratura archetipica: ha il vantaggio e la forza di essere lontana nel tempo, ma da traferire nel tempo, è qualcosa che vale per sempre… a prescindere dalla storia in sé. Il punto è stato trovare un modo di stare dentro a qualcosa che non conosco, cercando qualcosa di più vicino alla poesia. Mi sono lasciato molto commuovere per trovare la durezza di questi padri: c’è molta infanzia anche in queste persone adulte”.

E, a proposito di infanzia, accanto agli adulti ci sono i bambini, che per Delpero “sono una sorta di coro, come nelle tragedie greche, una prospettiva di sguardo: il loro sussurro è uno dei suoni del film; sono a volte bimbi strappati, in una società deprivata dalla guerra, e sono lo sguardo più ironico e fanciullino, pascoliano. Pietrin era il mio papà che m’era arrivato in sogno e io ho avuto bisogno di lavorare con un’età non toccata dalla scolarizzazione, per lasciare a loro il commento del sentire”.

Non è una famiglia “del Mulino Bianco” quella dei Graziadei, ma la classica famiglia di un tempo, modesta e rispettabile, con ruoli famigliari archetipici, una famiglia in cui – colpo di scena, ma senza troppa risonanza – s’insinua il disonore, che arriva dal profondo Sud, e per mano di una donna, Anna (Sara Serraiocco): se dapprima lo sgomento lacera l’animo di Lucia – a questo punto mamma della piccola Antonia, poi si fa motore di un riscatto personale: è così che si aprono piccoli spiragli di futuro, di indipendenza e, al contempo, di radicamento perpetuo di una cultura contadina propria del secolo scorso, ma di cui si rintracciano riverberi importanti nel contemporaneo.

Non secondari sono anche i luoghi, la Val di Sole, sul confine tra Trentino e Lombardia, che – come racconta ancora Delpero – “ha ancora piccoli paesini che hanno resistito al turismo: io faccio molto scouting location, è un modo per scovare piccole gemme rimaste nel tempo, così vado nei bar del posto e scelgo le comparse, perché capaci di muoversi nello spazio come nessun altro, cerco di ritrovare il modo di muoversi e di parlare, oltre al lavoro sul dialetto; filologicamente non era accettabile fare il film in italiano, perché doveva essere una delle musiche del film. Io ho vissuto tanto in montagna e tanto in pianura, e ci si muove diversamente: la montagna ti ricorda di essere piccolo, a tratti è leopardiana, quasi maligna, mentre la pianura ti fa stare a petto aperto, cosa su cui ho lavorato molto anche con Tommaso”, il cui personaggio s’ispira a “mio nonno, maestro, una figura di prestigio in quel tempo, perché qui c’è anche un discorso sull’educazione. Da parte dei padri ci poteva essere anche una crudeltà inaccettabile e non c’è stato da parte mia un atteggiamento nostalgico, né di giudizio sull’epoca: c’è una volontà di guardare indietro e osservare. Con Tommaso ho fatto un lavoro per cui gli ho chiesto uno sforzo contro il tempo, sui codici, con i limiti e la bellezza degli illuministi; il padre si fida molto del suo giudizio ma, altrettanto, è incapace di cogliere l’intelligenza emotiva del figlio maschio. Mi interessano le situazioni in cui ci si continua a interrogare, penso alla scena dell’acquisto dei dischi di musica classica, per cui la moglie è in disaccordo: chi non è d’accordo con lei sulla priorità?” di non spendere denaro per la musica, ma piuttosto per il pane che sfama, ma, altrettanto “chi non vorrebbe una lezione vivaldiana, in cui il nichilismo della guerra toglie la bellezza?”.

Maura Delpero, quando il suo film è stato annunciato a Venezia dal direttore Alberto Barbera, ha ricevuto parole che l’hanno appaiata al cinema di Olmi, per lei “un complimento enorme, un carico. Se l’anima gentile di Ermanno volesse reincarnarsi io lo accolgo con gioia”. E, rispetto alla sua prima opera, Maternal, in questo film anche sulla paternità, l’autrice riconosce “un salto e una continuità. Riconosco l’evoluzione in un linguaggio che continua a interessarmi, tra felicità e frustrazione: cerco un’economia dello sguardo. Cerco più un andare di poesia che di prosa. Il salto è stato di dimensioni: c’è continuità sulla coralità. C’è stato un passaggio dal materno al paterno, ma non deciso a priori”.

Il film al cinema dal 19 settembre con Lucky Red.

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