“Il mio non è un film di denuncia e neppure autoreferenziale, ma un film per i ragazzi di oggi, sempre più annoiati, disperati e cinici”. Ha ragione Valerio Jalongo, regista e insegnante all’Istituto Cine Tv Rossellini di Roma, che il suo La scuola è finita avrebbe avuto una collocazione più adatta nella sezione Alice nella città che nel Concorso ufficiale. Il tema è quello del difficile rapporto tra studenti e docenti, specie nelle scuole di periferia delle grandi città. E’ in quegli edifici, spesso degradati e orribilmente brutti, che alcuni eroici insegnanti, come i due interpretati da Valeria Golino e Vincenzo Amato, tentano di sintonizzarsi con i loro alunni, di dare loro alcuni strumenti culturali indispensabili. Ma l’insofferente Alex che distribuisce pasticche – il giovane attore non professionista Fulvio Forti – cerca senza saperlo piuttosto una famiglia, sfasciata e assente la sua, e soprattutto un vero padre che scopra il suo talento musicale. Ci provano a salvarlo i due professori, ma portando con sé, come è naturale, i loro problemi, in particolare la loro separazione, e vivendo un rapporto educativo fuori dalle regole.
Il film, una coproduzione italosvizzera in uscita con Bolero il 12 novembre, è sceneggiato dal regista insieme a Alfredo Covelli, Francesca Marciano e Daniele Luchetti: “Daniele ha seguito il trattamento ma non ha scritto direttamente” chiarisce Jalongo. La colonna sonora è di Francesco Sàrcina, leader de Le vibrazioni cui il regista ha chiesto di esprimere l’energia sotterranea e la carica emotiva che i ragazzi hanno dentro di sé. Nella colonna sonora figurano anche alcune composizioni originali di band giovanili scoperte durante il casting nelle scuole.
Quale scuola ha voluto raccontare?
Quella che è assente sulla stampa e nella fiction, non quella rassicurante dei licei, ma la scuola di quel 70 per cento dei ragazzi che non frequenta il classico e lo scientifico.
Lei è insegnante e ha realizzato un video-diario in preparazione del film?
Come tutti i professori cerco di catturare l’attenzione dei ragazzi, ma già dal primo giorno di scuola mi scontro con le loro espressioni di infelicità e noia. Lo stare in classe è per loro un obbligo che vivono senza gioia. Nel corso di tre anni ho realizzato un video-diario della loro esperienza scolastica che è stato utile per dare autenticità al film. Li ho intervistati, sono entrato nelle loro camere dove il libro è un oggetto esotico e abbondano televisori, pc e videogames. Si tratta di ragazzi che a metà anno scolastico non hanno ancora comprato il libro di testo.
Ha ambientato la storia nell’Istituto Pestalozzi…
Che è il nome di un pedagogo e proprio una sua frase dominava il frontespizio della sceneggiatura: “Nessun apprendimento vale qualcosa se toglie la gioia”. La mia rabbia, che inizia da studente e continua da professore, è verso una scuola che non riesce a raggiungere i ragazzi, che non comunica loro la passione per l’apprendimento. Una scuola noiosa, priva di slancio e di emozioni.
E’ così desolante questa fotografia della scuola italiana?
Non ho inventato nulla, è tutto vero: le porte sfasciate, i muri imbrattati, le scritte e i disegni sulle parte delle aule. E veri sono i personaggi di Daria e Aldo, conosco professori che hanno assunto droga. Del resto trovo inaccettabile che si tolleri, cosa che accade, lo spaccio e il consumo di droga, e intendo anche lo spinello, tra le pareti scolastiche. Dalla necessaria revisione del modello autoritario di scuola degli anni ’60 si è passati purtroppo all’estremo opposto.
Non crede che alcuni comportamenti dei suoi professori siano in fondo un po’ esagerati?
I due docenti, Daria e Aldo, sbagliano ma fanno la cosa giusta in un contesto che è alla deriva. Il trattamento originale del film, finalista al premio Solinas 2002, s’intitolava Laria. Manca infatti l’aria, l’ossigeno in questa scuola, manca qualcosa che accomuni studenti e professori, qualcosa che valga la pena di condividere.
Lei come professore si sente in sintonia con i suoi personaggi?
Aldo e Daria sono umani, li amo molto anche nell’errore, hanno la virtù di non restare impassibili in un contenitore malato, di farsi coinvolgere da Alex che viene da una famiglia disgregata. E per favore non chiamatelo ‘un ragazzo difficile’. Il suo è invece un tipo di sbandamento e d’infelicità molto diffuso, di fronte al quale i due insegnanti, pur sbagliando, si mettono in gioco. Il professor Talarico è un po’ arrabbiato con se stesso e sfiduciato, si mette in gioco, va oltre il suo ruolo e sbaglia, ma riesce a raggiungere quell’isola che è Alex, il ragazzo.
C’è alla fine un segno di speranza, nonostante Aldo e Daria vengano sanzionati?
Alex, nonostante gli errori degli adulti siano essi la famiglia, l’istituzione scolastica o i suoi due insegnanti, riesce a conoscere qualcosa di sé e a vivere un percorso di liberazione.
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