Vale doppio ricordare oggi François Truffaut

Il 21 ottobre ricorrono i 40 anni dalla scomparsa del "piccolo principe" del cinema francese


Nel fittissimo programma della Festa del Cinema ormai imminente, c’è un gioiello nascosto: Le scénario de ma vie: François Truffaut diretto da David Teboul. Non poteva del resto mancare un omaggio al suo cineasta preferito da parte della direttrice Paola Malanga, che a Truffaut ha dedicato il suo opus magnum nel 1996 (ma riedito due anni fa) e che non manca occasione per definirlo uno dei più grandi registi della storia del cinema. Ma l’occasione ci introduce a un anniversario rituale quanto doloroso: il 21 ottobre ricorrono i 40 anni dalla scomparsa del “piccolo principe” del cinema francese, lo stesso che con La camera verde ha condotto la più lucida e straziante indagine sulla morte e il lascito che ciascuno regala a chi gli sopravvive. In genere si festeggiano i compleanni, ma nel caso di François Truffaut questa morte, ad appena 52 anni, è proprio la parola “fine” che dà un colore diverso a tutta la sua vita. È come se nell’ospedale americano di Neuilly sur Seine dove il regista trascorse gli ultimi giorni dopo una tardiva operazione per un tumore al cervello, la Signora in Nero gli facesse fretta, obbligandolo a lasciare incompiuto il suo ultimo capolavoro: non un film, ma l’autobiografia intima che voleva raccontare al suo amico Claude de Givray. Se la cappella funeraria de La camera verde era per lui il simulacro del cinema stesso, una creazione di ombre e luci in cui depositiamo i nostri sogni e le illusioni che svaniscono appena si spegne la luce del set, le pagine di carta che oggi rivivono nel racconto ricostruito da David Teboul sono il tempio segreto in cui il protagonista va alla ricerca del suo segreto.

Per un autore che ha celebrato a più riprese la gioia della vita, la sorpresa dell’amore, lo stupore del sogno, questo anniversario è un canto alla vita, il ripetersi di quell’invenzione collettiva che chiamiamo cinema e che ogni volta – nel rivedere la sua opera – ci attraversa come corrente elettrica. I film di Truffaut, fateci caso, non invecchiano e sono ogni volta un infallibile meccanismo della seduzione. Del resto lo teorizzava lui stesso (“il regista è un seduttore compulsivo non appena cala la sera”) e ne applicava le conseguenze alla vita, innamorandosi di tutte le attrici che avrebbe trasformato in “regine dello schermo” grazie alla straordinaria empatia che la sua cinepresa stabiliva con le donne. Ne rese testimonianza pubblica intitolando uno dei film più personali e smagati L’uomo che amava le donne (1977). Pur non essendo bello con la sua statura minuta, i capelli perennemente ribelli, le orecchie a sventola e l’aria da furetto, Truffaut era un seduttore irresistibile. Si sposò giovane, nel 1957, con Madeleine Morgenstern, figlia del potente distributore della società Cocinor. Era il 29 ottobre – un mese che segnerà tutta la sua vita – e da quell’unione vennero due dei suoi tre figli, nonché la spinta (e qualche supporto economico) per aprire una sua società di produzione, Les Films du Carrosse, che lo rese subito indipendente dagli umori dell’industria nazionale. Ma se la carriera spiccò il volo quasi immediatamente (I 400 colpi è del 1961), il matrimonio non ebbe certo la stessa resistenza. Truffaut divorzia nel 1964, si invaghisce della giovanissima Marie-France Pisier, perde la testa per la minorenne Claude Jade (la ricordiamo in Baci rubati) fino a prometterle la fede nuziale per poi scordarsene nei fuochi rivoluzionari del ’68. Buona parte della vita sentimentale del seducente François – un vero Acquario, nato il 6 febbraio 1932 – sarà legata agli incontri sul set: Françoise Dorléac (sorella minore di Catherine Deneuve), la stessa Catherine con cui vivrà una passione al calor bianco, Isabelle Adjani (pare l’unica ad avergli resistito) fino alla compagna della maturità, Fanny Ardant. Il fatto che ogni volta credesse davvero al Grande Amore senza diminutivi – proprio come il suo doppio sullo schermo, Antoine Doinel col volto di Jean-Pierre Léaud – fece sì che con tutte le sue donne conservasse una vera amicizia anche dopo che la passione si era spenta. Lo hanno sempre descritto come un bambino ingenuo che giocava col suo cuore con la stessa convinzione assoluta con cui giocava col cinema. Il legame tra le due cose ne ha fatto uno dei registi più fedeli al racconto d’amore, il modello per tante donne che si ritrovavano nelle sue muse, a cominciare dall’intensa e ribelle Jeanne Moreau di Jules et Jim.

Di François Truffaut, critico severo e iconoclasta da giovane, padre-traditore della Nouvelle Vague (secondo l’anatema che per decenni gli scagliò contro il suo gemello calvinista Jean-Luc Godard), devoto seguace di Alfred Hitchcock (forse l’unico che riuscì a far dire la verità al maestro del brivido nella celebre intervista-confessione) e della vecchia scuola hollywoodiana che idolatrava mentre faceva a pezzi il “cinéma de papà” nazionale, astro luminoso di una nuova idea di cinema fin dall’opera di esordio, si è detto talmente tanto che si rischia l’ovvietà. Merita aggiungere che, raggiunta la gloria, rivisitò a modo proprio quegli stessi canoni della classicità che aveva avversato da giovane (L’ultimo metrò è esemplare in questo senso) e che l’indole dell’animatore di dibattiti critici non si spense mai in lui. Tanto da promuovere la contestazione al festival di Cannes nel ’68 in difesa del suo idolo Henri Langlois, da diventare il primo presidente dell’associazione mondiale dei cineclub, da tenere a battesimo il nascente e piccolissimo festival dei bambini a Giffoni Vallepiana, da fare della teoria del cinema il suo manuale costante quando ne calava le lezioni nella pratica quotidiana con le sue bellissime creazioni. “La prima cosa a cui penso quando comincio un film – fa dire a se stesso in Effetto notte – è che voglio che il mio film sia bello”. E l’idea della vita e degli umani secondo il canone luminoso della bellezza è la ragione per cui la sua opera gli sopravvive con sorprendente freschezza. Truffaut è un innamorato pazzo del suo mestiere e per questo proprio Effetto notte se non è il suo capolavoro è certamente un’elegia del cinema che non avrà più eguali. Qualsiasi bambino che si innamori di quei fantasmi sullo schermo e delle loro memorabili avventure sentimentali, trova nella storia di Vi presento Pamela, il film-nel-film di Effetto notte – Oscar nel 1974 – il suo breviario, il messale da recitare ogni sera davanti allo specchio.

Giunto in vista del capolinea però, François Truffaut voleva riaprire le pagine sulla sua infanzia e sulla sua tormentata famiglia nel libro che non portò a termine. Nato da una diciottenne segretaria di edizione che non confessò l’identità del padre biologico al piccolo François, cresciuto dall’architetto Roland che gli diede il suo cognome per amore della giovane donna che aveva sposato, allevato in campagna dalla nonna materna appassionata lettrice, di salute cagionevole e per questo spesso allontanato dai coetanei, Truffaut era un ragazzo ribelle, espulso dalle scuole, sempre pronto alla fuga da casa. “Quando lo feci davvero – raccontò una volta – mio padre ritrovò le mie tracce e mi consegnò alla polizia. Sono stato ospite per molto tempo del riformatorio di Villejuif da cui mi fece uscire André Bazin. Sono stato manovale in un’officina, poi mi sono arruolato per la guerra d’Indocina. Ho approfittato di una licenza per disertare. Ma, dietro consiglio di Bazin, ho raggiunto il mio reparto. In seguito sono stato riformato per instabilità di carattere”. Bazin sarà per François Truffaut quell’autentica figura paterna che gli era mancata e gli offrì un lavoro ai Cahiers du Cinéma. La storia che conosciamo comincia da qui, ma le pagine mancanti rimangono ancora segrete.

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06 Ottobre 2024

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