Nel 1984, nonostante lo scetticismo di buona parte della critica, Non ci resta che piangere, firmato a quattro mani da Roberto Benigni e Massimo Troisi, fu il maggiore successo dell’anno: 15 miliardi di lire che oggi lo confermerebbero ai vertici del box office anche in euro. Festeggiamo quindi la anniversario di un autentico fenomeno di costume e di gusto che per Troisi era il quarto successo dietro la macchina da presa, mentre per Benigni era soltanto la seconda prova. A guardarlo oggi si vede chiaramente che il primo lavora d’improvvisazione come suo costume, mentre il secondo si sforza di seguire l’ordito della sceneggiatura costruita con l’apporto determinante di Giuseppe Bertolucci che aveva portato Benigni al cinema con Berlinguer ti voglio bene nel 1977. Non a caso la novelization portata in libreria dai due non si discosta praticamente mai dal montaggio destinato alla sala. Il che svela invece un piccolo esempio di ”Director’s Cut” ante litteram: la versione distribuita durava 107’ (per alcuni 111), ne esiste un’altra con 18’ in più (l’episodio dell’amazzone Astriaha) e una per la tv con finale diverso e ben 145’ di durata. A ricostruire i segreti della moviola vien facile scoprire che già a metà delle riprese c’era il doppio del materiale necessario e che il montatore Nino Baragli dovette mettere un freno alla creatività dei suoi due “padroni”.
Il modello di narrazione distopica su cui si regge la storia (due contemporanei a spasso nel tempo, proiettati nella Firenze del 1492 e poi costretti a viaggiare tra Toscana, Lombardia, Francia e Portogallo sulle tracce di Savonarola, Leonardo e Cristoforo Colombo) viene dalle storie di Topolino e avrebbe fatto poi la fortuna di molte commedie tra i cinepanettoni come A spasso nel tempo e i derivati come Non ci resta che il crimine.
E’ facile dire che questo modello diventa fenomeno perché riunisce i due assi del cinema popolare degli anni ’80, ma in realtà Non ci resta che piangere è un capolavoro del cinema corale. Basta guardare la sequenza dei comprimari che i due capocomici portarono con sé: due bellezze di talento come Amanda Sandrelli e Iris Peynado e due signore del palcoscenico come Elisabetta Pozzi e Rita Di Lernia cui si aggiungeva il fascino esotico di Dominique Lavanant e l’esperienza di Lina Venturini; un irresistibile Paolo Bonacelli (Leonardo Da Vinci) e un maestro della comicità toscana come Carlo Monni; e ancora Ivano Marescotti, Jean-Claude Brialy, Michel Blanc, fino a una giovanissima Nicoletta Braschi. Stessa cura troviamo nel cast tecnico con la fotografia di Peppino Rotunno, le scene di Francesco Frigeri, le musiche di Pino Donaggio e i costumi di Ezio Altieri. Si può dire che il produttore di fiducia di Troisi, Mauro Berardi, non badò a spese insieme a Ettore Rosboch, sostenuto dalla lungimiranza del toscano Mario Cecchi Gori per la distribuzione.
Sulla carta la comicità stralunata e astratta tipica di Massimo Troisi non aveva la chimica adatta per sposarsi con il grammelot toscaneggiante di Benigni: invece i due si capirono fin dal primo ciak e raccontarono che più volte (come nella celebre scena del passaggio a livello o nella citazione di “la lettera” inventata da Totò e Peppino) dovettero ripetere più e più volte il ciak per fermare le risate che interrompevano costantemente la scena. Mario il riservato e Saverio l’intraprendente sono due maschere della commedia dell’arte che si intendono per l’identica radice plebea e si completano per la raffinata rielaborazione teatrale che entrambi avevano nel proprio bagaglio naturale.
Quello che la critica dell’epoca stentò ad accettare è il carattere volutamente rapsodico e disarticolato con cui Benigni e Troisi costruirono il canovaccio. La loro idea era certamente in controtendenza rispetto alle abitudini del nostro cinema e guardava più a modelli come Hellzapoppin’ alla Peter Sellers. Del resto se Troisi lavorava da tempo su un carattere interamente costruito sul suo personaggio, Benigni già cercava quel “grado zero” della regia che avrebbe difeso con grande umiltà in tutti i suoi lavori. La somma dei due talenti produce una effettiva sorpresa che spiazza e ottiene il risultato, tanto che nel 2015 Lucky Red ripropone il film in sala facendone un vero e “cult” che ancora adesso conserva tutta la sua freschezza.
La singolarità di questa collaborazione sta nel fatto che ciascuno dei due rinuncia ai vezzi e ai suoi cavalli di battaglia, tanto che nella lista delle frasi celebri spiccano i dialoghi piuttosto che i monologhi e sono soprattutto le controscene, la mimica, l’inserimento dei comprimari a produrre la risata.
Che il progetto di Non ci resta che piangere sia molto più calcolato e strutturato – come ne L’armata Brancaleone del 1966 – di una semplice “zingarata” si capisce già dal titolo: una citazione da Petrarca quando scrive a Barbato da Sulmona “Non tutto in terra è stato sepolto: vive l’amor, vive il dolore; ci è negato veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare”. E certo c’è da piangere vedendo che in quella picaresca rappresentazione dell’Italia di fine ‘400 vizi e miserie della commedia umana sono tanto simili all’Italia del Novecento. Troisi e Benigni (nell’ordine di apparizione sul manifesto, vista la diversa celebrità dei due nel 1984) se la ridono, ma amarezza e ironia hanno la nobiltà delle satire latine di Orazio, Marziale o Giovenale. Potrebbe sembrare blasfemo, ma se c’è un titolo a cui accostare oggi il film questo è il Satyricon di Fellini: analogo è il concetto rapsodico della struttura, simile la libertà creativa con cui gli episodi si accatastano, si intrecciano, si dispongono nell’ordito espressivo.
Non ci resta che piangere è senz’altro un film comico, pensato per far ridere e far accorrere a frotte i “tifosi” di entrambi i campioni. Ed è per questo che rimane un titolo di culto. Ma dietro la facciata, ciò che lo rende ancora attuale e vitale è la sua capacità di sorprendere ad ogni svolta. Il segreto sta nello spiazzamento dello spettatore, secondo una ricetta che viene dalla tradizione teatrale antica e che i due registi adottano con piena consapevolezza, mirando a un ritratto d’epoca che guarda anche alle novelle del Boccaccio e al Cunto di Giambattista Basile. Vi pare troppo per una semplice commedia da vedere insieme, famiglie incluse? Troisi e Benigni non la pensavano così, ma sapevano adottare quella leggerezza (levitas contro gravitas) che è solo dei Grandi. Già la sera della prima, il 21 dicembre di 40 anni fa, seppero di aver vinto la scommessa.
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