Quanti di noi hanno vissuto nella propria esistenza un giorno di ordinaria follia? Uno di quei giorni in cui tutto sembra andare storto, tanto da spingerci sull’orlo di una crisi di nervi. A volte con un passo già nel baratro. Più o meno a tutti. Il regista americano Joel Schumacher ne ha fatto un film ormai cult che il 27 maggio compie esattamente 30 anni dalla sua uscita nelle sale italiane. Un giorno di ordinaria follia parla esattamente di una giornata che deraglia dai binari ordinari e si tramuta in una tragedia di violenza, di lacerazioni emotive, di precipizio senza reti di sicurezza.
Il protagonista è William Foster: un uomo comune, stritolato da quel sistema a cui lui stesso è attaccato e affezionato. A dargli volto, carne e sudore è Michael Douglas, in forma smagliante, che regala alla storia del cinema un’interpretazione di notevole finezza e coraggio. Il film inizia con un ingorgo terrificante che richiama direttamente alla memoria una delle più grandi opere cinematografiche di sempre: 8 ½ di Federico Fellini. E poiché Foster è un uomo “vero” in un imbottigliamento stradale “vero” e non un regista inappagato che sta sognando come nel capolavoro felliniano, la situazione è decisamente peggio di un semplice incubo. E così scatta. Va fuori di testa. Lascia l’auto e cammina, cosa che (come ci dice una canzone dei Missing Persons) nessuno fa a Los Angeles. E più cammina, più la sua giornata lo stritola. Incontrerà e affronterà membri di bande di latinos che vogliono rubargli la valigetta, venditori coreani petulanti e senza pietà, lavoratori di fast food che gli dicono che è troppo tardi per la colazione, il proprietario di un negozio di armi neonazista e altri personaggi che sembrano messi sulla sua strada allo scopo di alimentare la sua rabbia.
Le sue azioni vengono notate da un detective della polizia di nome Prendergrast, interpretato da un altro mostro sacro di Hollywood: Robert Duvall. Naturalmente è il suo ultimo giorno di servizio e lui, a suo modo, è un esempio della stessa sindrome che affligge il personaggio di Douglas. Si sente impotente, scaduto, obsoleto. La storia si costruisce fino al confronto finale tra Douglas e Duvall: tra un uomo che ha perso la testa e un uomo che ha tenuto duro, nonostante pressioni della stessa forza. Anche se con tanti cliché narrativi, difetti di trama e una spregiudicata baldanza nel rappresentare le minoranze etniche (cosa che nel clima di politically correct a oltranza in cui viviamo, lo renderebbe improducibile oggi), Un giorno di ordinaria follia resta una storia avvincente che illumina verità scomode senza scusare il personaggio, senza redimerlo e senza un facile finale buono a mettere tutti d’accordo.
Parafrasando il grande critico Roger Ebert: “ciò che affascina del personaggio di Douglas, così come è stato scritto e interpretato, è il nucleo di tristezza nella sua anima. Sì, quando lo incontriamo, ha superato il limite. Ma non c’è euforia nella sua furia, non c’è liberazione. Sembra stanco e confuso, e nelle sue azioni segue inconsciamente i copioni che potrebbe aver imparato dai film o dai telegiornali, dove altri disadattati frustrati sfogano la loro rabbia su passanti innocenti”. Il nucleo di tristezza della sua anima. Ecco il senso più profondo che muove le azioni di questo personaggio che arriva a domandarsi nelle ultime battute del film, con una carica di ironia non indifferente: “Sono io il cattivo?”.
E oggi? Il film di Schumacher è ancora attuale? Ancora al passo coi tempi? A vedere il film Un giorno sbagliato di Derrick Borte uscito nel 2020 (segno del caso: anno della morte del regista di Un giorno di ordinaria follia) sembra di sì. Lo slogan di questo film con un mastodontico Russel Crowe, più per aspetto che per qualità della performance, è chiaro: “Può succedere a chiunque”. Cosa? Di uscire fuori dai binari e smarrire la retta via. Tra l’altro il titolo originale è Unhinged cioè “fuori dai cardini”. E l’inizio pure ricorda il film con Douglas. Vediamo immagini di ingorghi stradali, incidenti d’auto, disordini e violenze casuali abbinate a servizi radiofonici sulla perdita di posti di lavoro, sulla disperazione generale e – aspetto cruciale perché getta le basi per il caos che seguirà – su forze di polizia terribilmente sottofinanziate e con poco personale. “Al giorno d’oggi bisogna proteggersi”, dice una voce casuale e preoccupata. “Stiamo andando indietro”, gli fa eco un’altra. Ma la sceneggiatura di Carl Ellsworth poi deborda, carica troppo. Cerca di sfruttare il malessere che attanaglia la nazione per ottenere un effetto da B-movie a buon mercato e cruento. Piuttosto che esplorare la deriva di chi si sente impotente in una società che corre a velocità folle e che non si preoccupa di chi, per varie ragioni resta indietro, sguazza in queste paure e frustrazioni in modo grossolano. La violenza diventa esagerata. L’Uomo (il personaggio di Crowe non avrà mai un nome) è una specie di Terminator indistruttibile. E sembra giusto diffidare del vicino in questo mondo in cui un piccolo conflitto a un semaforo può portare a un inseguimento degno di Duel di Spielberg con un bel po’ di corpi insanguinati.
E allora se vogliamo una storia straordinaria che sappia raccontare l’umore generale dell’umanità in bilico tra ansia, frustrazione e rabbia e che ci metta in allarme rispetto agli incendi che si possono generare da una piccola scintilla meglio guardare la serie tv capolavoro arrivata in Italia con il titolo Lo scontro. Lee Sung Jin crea per Netflix un’opera dai toni audaci, che oscilla selvaggiamente dalla commedia al dramma al thriller senza risparmiarci il grottesco e l’ultraviolenza alla Tarantino. Sostenuto da una coppia di interpretazioni tra le migliori di quest’anno (Ali Wong e Steven Yeun su tutti) Beef è ardita nel modo in cui permette ai suoi protagonisti di essere cattivi, trasformandoli allo stesso tempo in specchi per noi stessi. Tutti noi abbiamo avuto brutte giornate. E siamo tutti a un passo dal prendere una decisione stupida. Imperdibile.
La mini serie debuttava il 19 dicembre 1964, in prima serata su Rai Uno: Lina Wertmüller firma la regia delle 8 puntate in bianco e nero, dall’originale letterario di Vamba. Il progetto per il piccolo schermo vanta costumi di Piero Tosi, e musiche di Luis Bacalov e Nino Rota
Il capolavoro con Gene Wilder è uscito il 15 dicembre 1974: mezzo secolo di follia e divertimento targato Mel Brooks
Il 14 dicembre 1984 usciva nelle sale un film destinato, molto tempo dopo, a diventare cult
Il 10 dicembre 1954 esplode il mito popolare di Alberto Sordi, l’Albertone nazionale. È la sera della prima di Un americano a Roma