Il 21 aprile di centodieci anni fa nasceva un attore che non si può contenere in una sola definizione.
Anthony Quinn, all’anagrafe Antonio Rodolfo Quinn Oaxaca, è stato molte cose: pugile, pittore, scrittore, scultore. Ma soprattutto è una forza della natura sullo schermo. In ogni ruolo, anche il più marginale, c’è un’energia primordiale, un magnetismo istintivo che fa vibrare la pellicola. Hollywood lo accoglie come comprimario di lusso, ma è il cinema del mondo, e in particolare Cinecittà, a consacrarlo a leggenda.
Il suo volto, scolpito come un bassorilievo azteco, sembra appartenere a ogni terra e a nessuna. È messicano, ma può essere greco, arabo, italiano. Può essere Zampanò in La strada (1954) di Federico Fellini, o il pastore sardo in Attila (1954) di Pietro Francisci. Può essere Paul Gauguin ne Il tormento e l’estasi (1965), ma anche Auda abu Tayi in Lawrence d’Arabia (1962). La sua voce, roca e profonda, sembra provenire dal centro della terra. E poi c’è il corpo: largo, potente, pesante, ma capace di movimenti rapidi e imprevedibili, come un toro danzante.
Con Cinecittà Anthony Quinn ha un rapporto intimo, affettuoso, a tratti viscerale. Il primo incontro risale al dopoguerra, nel 1954, quando il sogno americano comincia a dialogare con il neorealismo italiano. In quell’anno Quinn è sul set di Attila di Pietro Francisci, girato in parte negli stabilimenti di via Tuscolana: interpreta il re degli Unni, un barbaro affamato di gloria e di potere.
Sempre nel 1954 partecipa anche a Ulisse di Mario Camerini, una delle prime grandi produzioni mitologiche internazionali girate a Cinecittà, al fianco di Kirk Douglas. Il film, ispirato all’Odissea omerica, unisce lo spirito hollywoodiano al gusto scenografico italiano, aprendo la strada al filone dei cosiddetti “peplum”. Quinn interpreta un vigoroso e tragico Antinoo, principe dei Proci, figura arrogante e condannata, che si oppone al ritorno dell’eroe con tracotanza e destino segnato. La sua presenza scenica, anche in un ruolo secondario, impone forza, tensione e un senso di classicità drammatica che rimane scolpito nell’immaginario. Ma è solo l’inizio.
Nel medesimo anno, torna a Cinecittà per La strada di Federico Fellini, un film che segna una svolta epocale nella storia del cinema italiano e internazionale. In questo capolavoro del 1954, Quinn dà corpo al celebre Zampanò, domatore di strada, bruto dalla sensibilità nascosta, incarnazione di un’umanità dolente e selvaggia. Il personaggio, costruito con pochi gesti ma di una potenza ancestrale, diventa simbolo della solitudine maschile, dell’ incapacità di amare e di chiedere perdono. La pellicola, vincitrice dell’Oscar al miglior film straniero, sancisce non solo l’affermazione del genio felliniano, ma anche il pieno ingresso di Quinn nel pantheon dei grandi interpreti tragici del Novecento.
A Cinecittà Anthony Quinn impara l’arte dell’attesa e del caos. Ricorda spesso come sul set del maestro di Rimini si possano passare ore senza girare una scena, per poi ritrovarsi improvvisamente immersi in un flusso di immagini visionarie.
“Fellini mi lascia libero, ma pretende che ogni gesto sia necessario. Ho imparato a spogliare il mio gioco da attore, a restare nudo davanti alla macchina da presa.”
Il sodalizio con la capitale del cinema italiano si consolida negli anni Sessanta con Barabba (1961) di Richard Fleischer, girato in gran parte negli studi romani, e con altre coproduzioni che lo vedono protagonista di ruoli intensi e archetipici. È proprio a Cinecittà che Quinn conosce la bellezza di un cinema che non ha fretta, che plasma i personaggi come creta, che parla tutte le lingue e le reinventa. Un cinema che, come lui, non ama le gabbie.
Il legame con l’Italia, e con Roma in particolare, non è solo artistico. Quinn ama la città, il suo disordine, la sua teatralità quotidiana. Ha affittato una villa sull’Appia Antica e la sera ama camminare lungo il Tevere o nei vicoli di Trastevere, senza scorta, mescolandosi alla gente. È adottato dai romani, che lo salutano con un affetto ruvido, familiare. “Ah Antò, ma che ce fai stasera?” gli gridano dai bar. E lui risponde con un sorriso stanco, di chi ha vissuto mille vite e mille notti.
Il rapporto con Cinecittà si rafforza anche nei decenni successivi, quando torna per interpretare ruoli da patriarca, da re spodestato, da vecchio saggio. È un cinema che cambia, ma per Quinn ha ancora il respiro largo delle grandi storie.
“Qui i sogni hanno mura di cartapesta, ma l’anima è vera” dice in un’intervista del 1987, durante le riprese di una coproduzione italo-americana.
Negli ultimi anni della sua vita, Anthony Quinn ha continuato a lavorare, a dipingere, a raccontarsi. Anche quando il passo si è fatto incerto e la voce più sommessa, ha mantenuto intatto il fuoco che lo ha sempre spinto. Si è spento il 3 giugno 2001, a Boston, all’età di 86 anni, circondato dalla sua numerosa famiglia. La sua eredità, però, non ha conosciuto silenzio.
Oggi, ricordare Anthony Quinn a 110 anni dalla nascita significa celebrare non solo un attore, ma un modo di stare al mondo: appassionato, contraddittorio, ardente. Un uomo che non ha mai smesso di cercare la bellezza, anche nelle sue forme più oscure. E che a Cinecittà ha trovato non solo un set, ma una casa temporanea, un luogo dove può essere tutto ciò che è: migrante e re, bruto e poeta.
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