Dentro le stanze segrete del potere ci porta il nuovo film di Roberto Andò Le confessioni, che sposa la voga metafisica di certo cinema italiano contemporaneo (Paolo Sorrentino in primis) con la tradizione della denuncia politica. Lo vedremo quasi certamente al festival di Cannes (giovedì l’annuncio del programma, ma per ora regista e produttore, Angelo Barbagallo, preferiscono giustamente non confermare) e dal 21 aprile in sala distribuito da 01.
Nel film, con un cast internazionale di spicco e girato nel Nord della Germania, sul Mar Baltico, un frate certosino, Roberto Salus (Toni Servillo) viene invitato a partecipare a un G8, ma durante il vertice internazionale in cui si dovranno prendere decisioni che costeranno lacrime e sangue ai paesi più deboli, il direttore del Fondo monetario internazionale, Daniel Roché (Daniel Auteuil) compie un gesto estremo, dopo aver affidato al monaco, in una lunga confessione, i suoi tormenti. Ora tutti cercano di estorcere al religioso i segreti che custodisce gelosamente come una “scatola nera” in carne ed ossa, dalla tormentata scrittrice di best seller per bambini invitata al vertice (Connie Nielsen) al ministro dell’economia italiano (Pierfrancesco Favino) roso da dubbi etici, come la fragile collega canadese (Marie-Josee Croze) all’amico del defunto (Lambert Wilson).
Per Andò, reduce dal successo di un altro riuscito pamphlet sulla politica come Viva la libertà, si è trattato stavolta di fare un salto dalla prospettiva italiana a quella globale, e confrontarsi con una crisi che fa pensare immediatamente a quella che ha coinvolto la Grecia in anni recenti. Insieme allo sceneggiatore Angelo Pasquini, Andò ha tentato di scandagliare un territorio difficile come quello dello strapotere delle banche e della finanza internazionale che ha finito per erodere la sovranità dei governi democratici. “L’idea – racconta il regista palermitano – l’ho avuta due anni e mezzo fa, poi c’è stato un lungo lavoro di scrittura. Mi sembrava naturale proseguire sulla base di temi che mi assillano una ricognizione su alcune figure del potere. Il mondo dell’economia esercita il dominio, ma ha perso la sicurezza che aveva in passato e vive anch’esso un disorientamento”.
La figura del monaco, che Andò fa rientrare nella schiera dei dostoevskiani disturbatori, è quella di un testimone spesso muto – rivendica il voto del silenzio e il segreto della confessione – che ci porta all’interno di stanze mai aperte. “I certosini – spiega il regista – sono molto pochi nel mondo, meno di duecento, scelgono una vita affidata all’intensità, inseguendola attraverso la preghiera, il silenzio, la solitudine e la povertà. Rappresentano una spiritualità che non si concilia con la norma. Mi sembrava importante che in questo albergo terminale, una sorta di capolinea della storia europea, i padroni del mondo si confrontassero con un uomo che non solo non possiede nulla, ma che addirittura non pensa di disporre neppure della propria vita”. E che naturalmente non teme le minacce né si sottomette alle lusinghe.
Molti sono gli spunti letterari e filosofici del film, da Pascal al Vangelo, mentre il riferimento a Sant’Agostino si limita più che altro al titolo. “Le confessioni raccontano per la prima volta l’interiorità in modo completo, mentre qui il monaco suscita e fa venire alla luce ciò che gli uomini di potere tengono nascosto. Agostino è un retroterra come quando viene citata la sua definizione della confessione come grido dell’anima. O quando all’economista che rivendica il potere sul tempo, il monaco ricorda che il tempo non esiste, che è una variabile dell’anima”.
Mentre Daniel Auteuil manda un videomessaggio da Parigi dove è impegnato in teatro (e la paura dell’aereo gli ha impedito di essere a Roma per la conferenza stampa), Pierfrancesco Favino racconta di aver lavorato al personaggio non tanto guardando a qualche modello reale della scena politica italiana, ma per ricreare quel distacco tra corpo e voce che ha osservato nella realtà. “Spesso ho visto gli economisti esprimersi in pubblico, sempre senza alcuna empatia, con freddezza, senza mai andare in profondità”. E mentre trova riduttivo che il suo personaggio possa redimersi, descrive la scena in cui il monaco e il ministro dialogano come una scena centrale. “Sono due italiani che si ritrovano a parlare e il sacro, sempre presente nella nostra cultura, fa irruzione, ci accade anche se siamo atei. Inoltre tutti sentono il bisogno di aprirsi a Salus, perché in lui c’è un richiamo un mondo etico, all’anima”. Salus con la sua sola presenza, senza parole o con pochi accenni, magari un disegno, suscita negli interlocutori il dubbio. La sua alterità è totale: registra e ascolta il canto degli uccelli e ammansisce un cane feroce con una carezza.
Sulla forte cifra estetica del film, che ha le musiche di Nicola Piovani e la fotografia di Maurizio Calvesi, Andò rimanda a Iosif Brodskij e all’estetica come madre dell’etica. “L’albergo dove abbiamo girato, sul Mar Baltico, ha ospitato davvero un summit, è un rifugio di lusso, un luogo segreto, che diventa paesaggio morale. Ci sono molte vetrate, una geometria razionalista tipica di quell’architettura, veniva usato dai gerarchi per curare le malattie mentali di personaggi della nomenklatura”. E aggiunge: “E’ un luogo che, suo malgrado, ha una suspense, lì può accadere qualcosa di moralmente rilevante. Il segreto e la sua custodia sono gli elementi cardine del potere”.
Per Toni Servillo, che torna a lavorare con Andò dopo Viva la libertà, il monaco è “un uomo di fede che ha un credo ma si mostra come una persona credibile e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno… Oppone a un mondo di dichiarazioni ufficiali una dignitosa renitenza, non dirà mai ciò che non pensa. Per me è stato eccitante mettere il pubblico in una posizione scomoda di fronte a un eroe positivo a cui è un po’ più difficile paragonarsi”.
Inevitabile pensare a Elio Petri e specialmente allo sciasciano Todo modo, anche perché il siciliano Andò non rinuncia a un riferimento al potere mafioso come geniale invenzione italiana anche se non condotta fino in fondo, come se le banche fossero i veri eredi di quella “tradizione” di malaffare e dominio. “Petri è un regista che amo molto. Mi interessa creare un ponte tra immaginazione e realtà e confrontarmi con la politica, ma non si può più fare come negli anni ’70, quando lui convocava la Democrazia Cristiana all’eremo Zafer per fare un mea culpa. Tra l’altro Todo modo l’ho rivisto di recente, è un film bello e profetico. Io cerco di parlare di politica con gli strumenti umani del dubbio, della religione e dell’arte, non in modo ideologico o per fare la predica… E in futuro spero di occuparmi anche d’altro, magari d’amore”.
Per ora sta lavorando a una serie tv sulla politica prodotta da Angelo Barbagallo per la Rai, e scritta con Angelo Pasquini.
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