Nei prossimi giorni, nel giro di 48 ore su Sky e in streaming su Now ci sarà un passaggio di testimone che non può passare inosservato a tutti gli appassionati di serie crime e noir: il 15 gennaio debutta True Detective: Night Country, quarta stagione della serie cult creata da Nic Pizzolato, il 17 chiude la quinta stagione di Fargo, pluripremiata serie di Noah Hawley ispirata all’omonimo film dei fratelli Coen. Mentre quest’ultima è già stata acclamata come una delle migliori serie dell’anno, con tre candidature ai Golden Globe, True Detective probabilmente non sarà da meno, con la critica che esalta la scrittura sfaccettata, la messa in scena e le interpretazioni di Jodie Foster e Kali Reis, e che la premia con un sonoro 98% su Rotten Tomatoes. Al netto del genere grossomodo sovrapponibile, c’è una caratteristica che rende questi prodotti così vincenti e, soprattutto, così attesi anche a un decennio dalla loro prima messa in onda: sono entrambe serie antologiche.
Come saprete, una serie antologica è sostanzialmente l’evoluzione del concetto di miniserie, di cui rappresenta una sorta di “antologia” o “collezione”. In ogni stagione troviamo personaggi, interpreti, location e intrecci narrativi diversi e, soprattutto, autoconclusivi (proprio come una miniserie). In comune tra una stagione e l’altra, pochi elementi essenziali: la struttura della trama, il tono e il genere e, in particolare, l’autore (o meglio lo showrunner/produttore esecutivo), che garantisce il livello qualitativo e la visione generale del franchise. Così accade che, nonostante cambiamenti macroscopici tra una stagione e l’altra, i fan di una serie riescano a riconoscere subito l’impronta di una serie, rimanendo raramente delusi. I poliziotti tormentati, la regia virtuosa, le tematiche mature di True Detective, i personaggi grotteschi, la violenza estrema, il gusto pulp, le ambientazioni innevate (con unica eccezione della quarta stagione, guarda caso la meno amata) di Fargo.
Ma lo stesso vale per le altre serie antologiche che ormai sempre più arricchiscono i palinsesti digitali e non. Su tutte la pluripremiata The White Lotus, nata come miniserie e poi diventata antologia per andare dietro al successo ottenuto. Alcuni autori ne hanno addirittura fatto un marchio di fabbrica come Mike Flanagan, creatore di The Haunting e di tante miniserie caratterizzate dal genere horror (per ultima, la splendida La caduta della Casa degli Usher), fino ad arrivare a Ryan Murphy, vero e proprio guru della tv statunitense, che dopo il successo con una serie canonica come Glee, si è specializzato nel formato della miniserie e in quello antologico, con serie del calibro di American Horror Story (giunta alla sua dodicesima stagione), American Crime Story, il recente Dahmer – Mostro e Feud, pronta a tornare con una seconda stagione a distanza di 7 anni dalla prima.
C’è poi il formato dell’antologia di episodi – riportato in auge dalla serie sci-fi britannica Black Mirror, in un certo senso erede della storica Ai confini della realtà – che vede ogni stagione come una raccolta di episodi, veri e propri corto o mediometraggi autoconclusivi. Negli ultimi anni abbiamo ne abbiamo visto una proliferazione di ogni genere e tipo: fantascienza con Electric Dreams, horror con Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities (che prende a modello il classico Alfred Hitchcock presenta), e l’animazione con Love, Death & Robots, Star Wars: Vision e What If…?.
Se consideriamo le candidature degli ultimi anni agli Emmy Awards e ai Golden Globe, che premiano separatamente le miniserie, noteremo che spesso i prodotti più celebrati sono inclusi proprio in questa categoria. Le ragioni per cui le stagioni antologiche sono generalmente molto amate dalla critica e dal pubblico sono molteplici. Gli esempi di True Detective e Fargo, in particolare, ci insegnano la differenza fra una serie canonica, che produce una stagione dietro l’altra il più velocemente possibile per tenere avvinghiato il pubblico e mantenere la continuità narrativa, e una serie antologica, che segue generalmente un processo diverso: quello delle idee. Infatti, da una parte creare una serie antologica è molto più difficile da un punto di vista autoriale e produttivo, in quanto bisogna ogni volta ricominciare daccapo con nuovi personaggi, attori, location e trame; dall’altra non c’è una particolare pressione e si può aspettare l’idea giusta che valorizzi il progetto. Una controprova di ciò è il caso di American Horror Story, unicum nel panorama seriale che, spinta dal clamore delle prime stagioni, ne realizza una nuova praticamente ogni anno, andando incontro a un calo qualitativo inevitabile.
C’è poi un altro fattore cruciale, quello della struttura narrativa. Raccontare storie e personaggi sempre nuovi e, soprattutto, essere costretti a chiuderli ogni volta, comporta un focus sui caratteri più simile a quello di un film: i conflitti possono esplodere senza timore di avere ripercussioni sulle stagioni successive e si può raggiungere la tensione (e la soddisfazione) di un vero e proprio finale. Insomma, seppure le serie antologiche determinino la mancanza della tipica familiarità e affezione che si prova nei confronti di personaggi e situazioni di una serie di lungo corso, rispondono a un’esigenza probabilmente molto più forte e pressante: quella della compiutezza narrativa.
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