Daniele Gaglianone ha 34 anni, Shinozaki Makoto ne ha 37.
Non saranno giovanissimi, ma una cosa è certa: sono nati a guerra finita e dimenticata. Eppure sentono entrambi la voglia di farci i conti. Attraverso storie di uomini anziani, molto più anziani di loro, che quell’esperienza l’hanno attraversata. Il giapponese con un film (Wasurerarenu-Hitobito) sul rimorso di aver lasciato morire un compagno in battaglia; l’italiano con una vicenda di vendetta e, ancora, di sensi di colpa che ti perseguitano quando non sei tra i sommersi ma tra i salvati.
Era atteso I nostri anni, accolto con applausi dalla folla del Torino Film Festival nonostante la fatica del rigore documentaristico senza concessioni. Perché è il secondo italiano in concorso, perché l’autore è vissuto qui, dove si è laureato con Rondolino e ha poi a lungo lavorato con l’Archivio cinematografico della Resistenza, ma soprattutto perché tocca argomenti ancora scottanti come dimostra la dura polemica tra i due sindaci della cintura torinese, Collegno e Grugliasco. Lì un episodio di rappresaglia contro i fascisti che qualcuno vorrebbe dimenticare, qui due vecchi partigiani che non cancellano dalla testa quella volta che i loro compagni sono stati trucidati dalle camicie nere e loro sono rimasti tra le betulle, impotenti. Cinquant’anni dopo, per Alberto e Natalino viene l’ora di una resa dei conti che acquista, negli occhi dello spettatore, toni più personali che politici. È lì che il film vira nell’universalità: quando ti mostra, con un’interessante tessitura di materiali diversi (repertorio vero o finto, sogni, tutto in bianco e nero), la compresenza del tempo soggettivo nella mente di ogni uomo e il coagularsi di un’intera vita attorno a una giornata, un’ora o addirittura pochi minuti decisivi.
Per Alberto è così e se ne rende conto quando, in ospizio, riconosce attraverso il dettaglio di una manica arrotolata con troppa cura, il capitano dei repubblichini che nel ’44 torturò e uccise i suoi amici, scampandola dopo un anno di galera e con una vita rispettabile davanti. “Col Duce hanno fatto carriera, ma con la repubblica… dopo la guerra tutti fuori… Paese di merda!”, dice e sa che della Resistenza “non gliene frega più niente a nessuno”. Eppure adesso possono giustiziarlo loro, quel boia. Succeda quel che succeda.
Lo faranno? Meglio non rivelarlo – il film, prodotto da Gianluca Arcopinto, uscirà nelle sale con la Pablo – basti dire che Gaglianone sembra indicare una via di pacificazione ma non di oblio (è il fascista, paralizzato su una sedia a rotelle, ad aver davvero dimenticato). E neppure di revisionismo: il messaggio arriva chiaro e forte quando uno dei due vecchi spiega la differenza (etica più che politica) tra violenza partigiana e repubblichina: “I morti sono tutti uguali, i moribondi no. Una cosa è fucilare il nemico, un’altra cavargli gli occhi o tagliargli i testicoli”.
Resta la difficoltà di raccontare la Resistenza, al cinema e fuori. Lo dimostrano le polemiche recenti, lo testimonia questo film che, per schivare il cliché in cui altri prima di lui, vedi Porzûs, sono inevitabilmente caduti, teatralizza e sottoespone la rievocazione di quegli anni ai limiti dell’astrattismo (con risultati interessanti ma diseguali come, per altri versi, nel Partigiano Johnny). Restano i tre vecchi (Virgilio Biei, Piero Franzo, Giuseppe Boccalatte) coraggiosamente a nudo nell’incarnare fisicamente il groviglio di pulsioni irrisolte di quegli anni. Non (forse) i migliori della nostra vita.
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