BERLINO. E’ il beniamino di casa, Tom Tykwer, autore di titoli entrati nella storia del cinema tedesco contemporaneo come Lola corre, cantore della città di Berlino (con Drei del 2010 e con la serie Babylon Berlin ambientata negli anni ’30 e durante la Repubblica di Weimar). Ora al regista sessantenne nato a Wuppertal ma berlinese di adozione è affidata l’apertura della 75ma Berlinale con la commedia Das Licht (The Light), che ha tra i coproduttori anche l’italiana Rai Cinema.
Un film che è un po’ una summa delle distorsioni della società occidentale contemporanea e anche un sommario del cinema contemporaneo (con inserti di musical e persino un sequenza cartoon). Un film che tocca i temi più disparati, dalla famiglia disfunzionale al terzomondismo, dall’ecologia al gender fluid, dai profughi siriani allo spiritismo. Un film corale per vocazione e per scelta programmatica dato che segue le vicende di una famiglia atomizzata, gli Engels, composta dai genitori Tim (Lars Eidinger) e Milena (Nicolette Krebitz) e dai loro figli, i gemelli diciassettenni Frieda (Elke Biesendorfer) e Jon (Julius Gause), a cui si aggiunge il piccolo Dio di otto anni (Elyas Eldridge) nato da una relazione della donna con un kenyota e con loro a settimane alterne.
Tim è un pubblicitario pieno di sé ma in realtà scoppiato, un uomo di sinistra che ora lavora per le multinazionali, Milena è un’esperta di cooperazione internazionale molto battagliera ma assente con i suoi cari ed entrambi partecipano a una terapia di coppia senza molta convinzione per ritrovare quel minimo di contatto fisico che si addice a una coppia. Intanto i due gemelli vivono in un mondo a parte e rifiutano i genitori. La ragazza è un’attivista ambientalista e nottambula mentre il fratello sta ore chiuso nella sua stanza a giocare con la realtà virtuale. Sono tutti talmente alienati che non si accorgono neppure della morte della loro domestica, stroncata da un infarto mentre fa le pulizie e ritrovata la mattina dopo. Ma l’arrivo della nuova colf, la rifugiata siriana Farrah (Tala Al-Deen), che vuole lavorare come governante anche se è una terapeuta laureata, stravolge e ricompone gli equilibri della famiglia in una Berlino dove non smette mai di piovere a dirotto. Lei è una sorta di novella Mary Poppins che riesce a comunicare con tutti e che usa la “luce” per curare i traumi della mente e del cuore e ricreare un legame tra i vivi e i morti o magari aiutare i morti a trovare la loro dimensione ultraterrena e i viventi una pace provvisoria.
“A quasi sessant’anni – dice il regista in un’intervista a Deadline – mi sento come il rappresentante di una generazione che sta affrontando le conseguenze di un tempo in cui non si è fatto abbastanza e si sono perse alcune opportunità non prevedendo i cambiamenti che ora ci stanno soffiando in faccia. I nostri figli ci guardano e dicono: ‘Cosa hai fatto? Dov’eri?’ Stanno cercando di capire come siamo riusciti a lasciare che le cose cadessero così a pezzi. Ma il film non incolpa nessuno. Le cose erano così complicate da gestire all’inizio di questo secolo, quando i mercati furono liberalizzati e la digitalizzazione prese il sopravvento sul nostro sistema economico e sui nostri sistemi sociali”.
“La crisi – aggiunge il regista – ha mostrato il suo volto per almeno un decennio, forse anche più e ora ci stiamo svegliando perché i nostri figli ormai adulti dicono: ‘Questo è un vero casino. Pensavate che sarebbe stato un cantiere interessante che avremmo potuto continuare a costruire, ma invece è disastroso’. Questo è ciò che dice il film: dobbiamo unire le forze e guardarci l’un l’altro con amore ed empatia”.
La città di Berlino ha un ruolo chiave nella vicenda. “Berlino è la città più cinematografica del mondo perché è incompiuta e contiene cose grottesche e brutte accanto ad altre magnifiche, è una città dove le cose accadono”. E ancora: “Vivo da 40 anni a Berlino e qui ho tutto quello che mi serve, le persone che amo, le mie sale cinematografiche preferite e la strana estetica di questa città, che mi fa infuriare ma allo stesso tempo mi ispira”.
Il protagonista Lars Eidinger (interprete anche di Vergine giurata di Laura Bispuri) fa una considerazione sul contesto sociale del film, che non è solo un attacco alla borghesia di sinistra: “Io credo che un film più è personale, più è universale. E in questo caso il tema è: noi, privilegiati e ricchi, noi siamo il problema”.
Tykwer, che ha inaugurato due volte la Berlinale, con Heaven nel 2002 e con The International nel 2009, dice a proposito della famiglia disfunzionale: “E’ buffo immaginare che esista qualcosa come una famiglia funzionale. Io credo che solo le macchine funzionano sempre, mentre gli esseri umani non funzionano ed è proprio questo che li rende umani. Facciamo pace con le nostre contraddizioni e forse questo film è un punto di partenza per imparare a vivere nelle contraddizioni con la consapevolezza che non esiste il torto o la ragione, ma che hanno tutti ragione”.
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