Thierry de Peretti: memoria di un delitto

Esce coraggiosamente il 14 agosto, in lingua originale con sottotitoli, distribuito da Kitchenfilm "Apache" di Thierry de Peretti, visto alla Quinzaine di Cannes nel 2012 e a Giffoni


Apache è un dramma che racconta, ispirandosi a un fatto di vera cronaca nera, la gioventù disagiata della Corsica, lontana dall’immagine da cartolina tutta belle spiagge e buoni formaggi che i più conoscono. Mentre migliaia di turisti affollano battigie, campeggi e locali, cinque adolescenti di Porto Vecchio si trascinano senza meta. In una sera di particolare noia il giovane Aziz porta gli amici in una villa dove il padre lavora come custode. I ragazzi si concedono indisturbati una notte di lusso e all’alba, complice una sbronza, se ne vanno portando via oggetti senza valore e fucili da collezione. Ma i proprietari, al ritorno da Parigi, si lamentano con un piccolo bosso locale di loro conoscenza. La ragazzata si trasforma presto in tragedia. Ne parliamo con il regista, alla sua opera prima, venuto a Roma per presentare il film.

Considera la storia autobiografica?

Non esattamente. Mio padre viveva negli stessi luoghi dove è avvenuto il fattaccio, ma al contrario di molte opere prime francesi questa non racconta fatti che sono accaduti a me. Io sono andato via a 17 anni e all’epoca ne avevo 25. Quel che mi interessava era soprattutto elaborare il trauma che questo evento ha lasciato sul posto e la conseguente inquietudine. Rivedendo il film, riconosco qua e là delle cose che mi appartengono ma la mia giovinezza è stata del tutto diversa, non facevo parte di quell’ambiente. Forse il film mi appartiene anche in quel senso, sì, ma solo ora che lo rivedo. Non prima di girarlo.

Il film è dedicato alla vittima reale degli eventi…

E’ un gioco verticale per ricordare non solo la persona singola, è l’elaborazione di una memoria collettiva del delitto che riguarda l’intera comunità. La mia sfida era estrarre il nome della vittima dagli elenchi delle cronache e rendere il fatto eternamente impresso, assoluto, attraverso il cinema. Ho voluto girare esattamente dove si è svolto il fatto, proprio perché l’intenzione era quella di elaborarlo, come in una sorta di esorcismo. Volevo scongiurare il delitto. Questa era la mia principale motivazione per raccontare questa storia, se l’ho fatto bene o male ha minore importanza.

Scopriamo tramite il film una Corsica ben diversa da come la conosciamo…

Certo, l’altro stimolo era proprio rappresentare la Corsica attraverso una storia difficile, non con un’agiografia sui suoi eroi come, non so, Pasquale Paoli. Ho scelto una delle sue storie più brutte, invece, perché appartiene alla comunità più dei suoi miti.

La sua versione, quanto si attiene ai fatti di cronaca?

I colpevoli sono stati scoperti due anni e mezzo dopo. Uno dei giovani coinvolti non ce l’ha fatta più e si è costituito. Ora sono in prigione. E’ una storia molto complessa, anche edificante, se vogliamo, in termini di redenzione. Io ne ho presa solo una piccola parte, quella che mi pareva più significativa per le mie esigenze. Volevo raccontare il confine che c’è a Porto Vecchio tra l’ultracapitalismo imperante delle spiagge e delle ville e una spinta atavica alla violenza, che fa parte della cultura dell’isola. C’è la ‘jeunesse dorée’ della Capitale e poi ci sono le minoranze culturali, e gli intermedi, spinti da un estremo spirito nazionalista. Qui unisco tutti gli elementi della tragedia. Consideriamo anche l’escalation economica di Ajaccio negli ultimi 10-15 anni. E’ diventata una sorta di Beverly Hills francese, con le ville delle star eccetera. E le famiglie che si sono arricchite hanno anche concentrato molto le loro ricchezze: c’è la famiglia che possiede tutte le ville, quella che possiede tutti i supermercati. Ma accanto a questa sfrenata opulenza molte cose sono rimaste in sospeso, costrette tra le rivalità fra clan. Come in Texas: è una storia simile a quella che racconta Arthur Penn ne La caccia. Sono meccanismi antichi di concentrazione del potere che si accompagnano a storie di violenza. Ad Ajaccio c’è un solo liceo: i ragazzi vanno a scuola insieme, si conoscono, giocano insieme anche se provengono da diversi ambienti culturali. Finita la scuola, non si riesce a fare il salto, ognuno ritorna nella sua comunità, si separano.

Una situazione radicata da secoli di storia, legata alle conseguenze del colonialismo…

Esattamente. Alla fine della guerra d’Algeria i pieds-noirs, ovvero i francesi che lavoravano lì, vennero rimpatriati. La Corsica mise a disposizione appezzamenti di terra da coltivare, il che venne fatto utilizzando gente proveniente dal Marocco, dall’Africa. Le condizioni di lavoro erano pietose, quasi a livelli di schiavismo. Si radicò quest’idea di pericolosità dei Corsi. Si delineò questa tensione tra colonizzatori e colonizzati. Anche nel delitto raccontato dal film possiamo trovare questo sentimento xenofobo, la paura dell’altro. L’idea di sentirsi costantemente vittime di qualche aguzzino. La Corsica è un pessimo esempio di esperimenti governativi.

Come ha trovato i suoi attori?

Con un workshop/casting di un anno. Ho incontrato molti ragazzi tra i 16 e i 20 non solo per trovare gli attori, ma anche per avere una fotografia precisa di quello spaccato di gioventù. Il lavoro è stato soprattutto passarci del tempo insieme, al di là delle prove, dell’improvvisazione eccetera. Ci siamo raccontati storie, ci siamo presi il tempo giusto, abbiamo aggiunto e modificato. Loro si adattavano alla sceneggiatura e viceversa. Vengo dal teatro e dunque per me è importante questo tipo di formazione, fare gruppo, creare una squadra, anche al di fuori della performance. Vivere insieme momento per momento.

Ha scelto un formato ormai considerato insolito, il classico 4:3…

Sì, innanzitutto, semplicemente, perché mi piace molto. E’ il formato del ritratto, primitivo se vogliamo. Il produttore non voleva, ho dovuto battermi molto. Non sapevo che farmene di tutto quello spazio ai lati. Billy Wilder diceva che il 16:9 serve solo per filmare i serpenti. Poi usavo attori non professionisti, tendendo al realismo, quasi documentaristico. Cercavo qualcosa che stridesse, che risultasse un po’ innaturale, e dato che ormai sono tutti abituati al panoramico mi è parsa la scelta più adatta.

Perché il titolo ‘Apache’?

E’ l’appellativo sdegnoso che dette il prefetto di Parigi ad alcune bande di Belleville, e inoltre mi permetteva di rievocare il western e di rimandare alle riserve degli indiani, che riflettono diverse analogie col contesto che racconto.

Come si pone nei confronti dei protagonisti?

Cerco di non giudicarli. Si tratta di un delitto, ma mi metto anche nei loro panni, vivono questa stimolazione arcaica e viscerale di forze oscure che dominano l’isola e la comunità. Nel finale arriva una sorta di risveglio collettivo, che rendo attraverso sguardi in macchina. E’ come se tutti si rendessero conto che la Corsica, appunto, non è fatta solo di sole e mare. E invito in qualche modo a riguardare il film sotto un’altra ottica. Ho dato uno sguardo crudele ma il fatto stesso di aver girato questo film ora fa sì che le persone che abitano il posto vedano quelle strade in modo diverso. E sono le stesse persone che si sono ritrovate a vederlo tutte insieme in sala. Spero di aver contribuito, a livello simbolico, a modificare il comune immaginario sul luogo.

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26 Luglio 2013

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