CANNES – “Non ho la speranza, ho la certezza che vinceremo” sono le prime, forti parole pronunciate da Setareh Maleki, una delle giovani protagoniste del nuovo film di Mohammad Rasoulof, The Seed of the Sacred Fig. Presentato tra le ovazioni del pubblico al 77° Festival di Cannes, il film del regista dissidente iraniano è un dramma familiare che ci permette di entrare a contatto con la condizione politica e culturale del Paese a seguito degli eroici e tragici moti di proteste esplosi due anni fa a causa della morte di Mahsa Amini. Al grido di “Donna, Vita, Libertà”, migliaia di giovani studentesse iraniane si sono ribellate al regime, pagandone le conseguenze.
È questa la cornice di The Seed of the Sacred Fig. Il film inizia, infatti, con un giudice del governo iraniano (Missagh Zareh) che riceve una pistola d’ordinanza in seguito a un’importante promozione che potrebbe aumentare il pericolo per sé e la sua famiglia, composta da sua moglie (Soheila Golestani) e dalle loro due figlie adolescenti (Mahsa Rostami e Setareh Maleki). Questo nuovo status arrivi nel momento peggiore: ovvero quando scoppiano le proteste nelle strade, provocando l’arresto violento di migliaia di giovani, colpevoli semplicemente di essere presenti alle manifestazioni. Mentre l’uomo si trova a processare e spesso condannare a morte centinaia di persone al giorno, il resto della sua famiglia vive l’altro della medaglia, dovendo affrontare di nascosto il ferimento e l’arresto di una compagna di scuola e amica delle ragazze.
La prima parte del film ci mette davanti a questo scontro generazionale, con gli adulti che credono a quello che vedono nella tv di regime e le giovani che si abbeverano alla fontana dei social network, dove, nonostante i filtri, la controinformazione racconta con immagini terribili la realtà delle cose, con migliaia di studenti che vengono violentemente brutalizzati. I punti di vista dei genitori e dei figli arrivano a uno scontro decisivo che anticipa una delle svolte decisive del film, in cui avrà un ruolo centrale la pistola di ordinanza del padre, e che porterà verso una seconda parte molto più tesa e che si lascia andare a chiare dinamiche da thriller psicologico che citano Shining.
Al conflitto generazionale si aggiunge quello tra moglie e marito. Inizialmente l’obiettivo della donna, infatti, è quello di potere offrire alle figlie una stanza in più in una nuova casa, ma presto capirà che quello di cui hanno bisogno è molto di più, venendo costretta a compiere un percorso di emancipazione e consapevolezza del mondo che la circonda. Come ignorare la realtà che accade fuori dalla propria finestra? Come non credere alle immagini che mostrano chiaramente la violenza del regime per cui il marito lavora?
“Non è una religione, è una politica ideologica. – dichiara Rasoulof – Il mio film non parla di religione in senso stretto, il mio film parla di indottrinamento, che è quando affidi il tuo cervello a qualcun altro e quella persona si appropria dei tuoi pensieri. I leader politici usano la religione come arma di convincimento. È una dittatura totalitaria che prende piede nel paese in nome della religione e ci rende suoi ostaggi”.
Il primo ostaggio è proprio il padre di famiglia. Un personaggio con cui è facile empatizzare, in quanto vengono enfatizzati i suoi sensi di colpa e le sue debolezze. “Non importa quanto sia forte la tua fede, una sentenza di morte è insopportabile” afferma, sconvolto dalla durezza del suo lavoro. Eppure quando le cose peggioreranno, inizierà a dubitare degli stessi componenti della sua famiglia. Su di lui vincerà la forza dell’indottrinamento, che incarna in quanto uomo di stato, iniziando un percorso da cui non potrà più tornare indietro. “Il mondo è cambiato ma non lo è la legge di Dio” si ripete per confortarsi di fronte alle sue scelte. Sentendosi vittima nella propria stessa casa, l’uomo incarna il suo stesso Paese, totalmente incapace di opporsi a una nuova generazione e all’inarrestabile cambiamento.
“Tutti questi personaggi sono ispirati da persone vere e le scene vengono da situazioni reali. – afferma il regista – Chi conosce i servizi segreti iraniani riconoscerà i luoghi, i corridoi. La storia è molto ispirata alla realtà. Quello che mi interessa è il modo di pensare di queste persone. Mi concentro sull’aspetto psicologico, i bisogni individuali di queste persone e come sono arrivati lì, ad essere schiavi del sistema e a contribuire attivamente al regime. Ho creato un tipico personaggio che incarna il regime, i miei anni di prigione e interrogatori mi hanno aiutato a capire queste persone”.
Infine, ci sono le donne. Eroine di questa vicenda sia dentro le mura familiari che fuori, nelle strade, dove le tante immagini di repertorio ce le mostrano in azione. “Sono un po’ pazza e per me non è stato difficile scegliere di interpretare questo ruolo. – rivela ancora la giovane Setareh Maleki, che interpreta la figlia minore – Sono stata la seconda o terza persona unirsi al progetto, non sapevo neanche chi fosse il regista perché era importante che rimanesse segreto. Ma io sapevo che soltanto una persona poteva avere il coraggio di fare un film così: Mohammad Rasoulof. Quando l’ho visto di persona, ho esclamato: lo sapevo! Sono molto grata che questo film sia stato completato. Per me è stato difficile lasciare il paese, non me ne pento. Non mi vergogno, è la Repubblica Islamica che dovrebbe vergognarsi”.
Le donne si rifiutano di sedersi, usano i social e le immagini come un’arma potentissima a loro favore, capace di sfidare i manganelli, le granate e frammentazione, le pistole e i loro proiettili, che ricordano simbolicamente i semi del titolo. Le donne rappresentano l’anima non solo di un film, ma di un Paese intero. Una generazione che non ha intenzione di lasciarsi sopraffare da un regime totalitario e che farà tutto ciò che è in suo potere per rivendicare la propria libertà. Anche uccidere i propri padri.
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