‘The devil’s bath’, Franz e Fiala: “È un horror, ma non abbiamo inventato nulla”

Nel cuore del vecchio continente, tra '700 e '800, centinaia di donne vennero giustiziate per poterne salvare l'anima di fronte a Dio. Una storia vera con cui Veronika Franz e Severin Fiala partecipano al concorso della Berlinale


BERLINO – In principio, sentiamo solo il pianto di un bambino. Una donna lo stringe a sé attraversando i boschi dell’Alta Austria, dove le foglie secche d’autunno e i ruscelli confondono i suoni tra loro. Poi, silenzio. “Ho commesso un crimine” dichiara la donna al cospetto di un monastero perso nella nebbia. Del bambino, nessuna traccia. Schermo nero e un titolo: The devil’s bath, il bagno del diavolo.

Inizia così l’ultimo film della coppia di registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala, in concorso al festival di Berlino con un horror tratto da alcune delle pagine più buie, e dimenticate, del vecchio continente. Il prologo anticipa un racconto racchiuso tra due parentesi: un matrimonio prima, un’esecuzione dopo. Drammaticamente simili per messa in scena e toni. Di mezzo, la religione e la superstizione, responsabili della morte di oltre 400 persone (principalmente donne) uccise in pubblica piazza nel corso di quasi due secoli, una pratica barbarica ideata come strumento di salvezza per anime altrimenti destinate al suicidio e perciò alla dannazione eterna.

Donne perlopiù bisognose di cure, affette da disturbi mentali ma accusate di avere il sangue di Satana nelle proprie vene. Molte tentarono di porre fine alla propria vita. Una decisione inconcepibile per una religione –  infusa ancora di paganesimo e folklore, soprattutto nei villaggi più sperduti del ‘700 – che distingue per assoluti redenti e dannati. Le tecniche utilizzate per “salvare” queste giovani erano inscritte in testi giunti sino a noi, testimonianza di vere e proprie torture figlie di un’epoca cupa a cui questa storia si rifà senza lasciare troppo spazio alla fantasia.

Franz e Fiala adattano perciò una storia vera, di cui l’horror è un risultato ovvio prima che una ricerca. A supportare il genere prediletto dalla coppia di registi è una fotografia in cui si alternano tinte gotiche, richiamando lo stile di Friedrich e di quadri come l’Abbazia del querceto, ad altre più inaspettatamente luminose. Un gioco di luci e ombre che diventa man mano più netto, in una raccapricciante lotta tra bene e male secondo i dettami di tradizioni efferate.

La giovane Agnes, interpretata dalla cantante Anja Plaschg, conosciuta anche come Soap&Skin, è perciò una delle tante povere sacrificate in nome di credenze barbariche. Dopo essersi sposata con Wolf (David Scheid), a cui non interessa avere alcun rapporto sessuale, mettendo così a rischio il sogno di un figlio maschio, la giovane cadrà in uno stato allucinatorio e tormentato, che la costringe in una gabbia mentale messa in scena dalla coppia di registi grazie al labirinto di alberi che circonda la casa della protagonista. Lo stato mentale di Agnes peggiora, e a colpire è che per quanto accettata, se non attesa, dai compaesani, la decisione di affidarsi nelle mani del “bagno del diavolo” è sua, unica soluzione per salvare la propria anima dopo aver tentato più volte di suicidarsi. Un corpo in putrefazione abbandonato a cielo aperto, appartenente a un suicida del paese, le mostra l’alternativa. Un terrore che non riguarda la permanenza terrena, ma ciò che l’attende dopo.

Le soluzioni offerte dal tempo peggiorano le condizioni di Agnes. Salassi per depurare il sangue, dolorisissime estrazioni di presunti veleni ultraterreni. Il catalogo è ampio e si alterna alle allucinazioni della ragazza. Tentando di evadere dalla propria sofferenza, Agnes cadrà in preda di immagini illusorie, in cui si vede infliggere dolorose punizioni. Lo scarto tra realtà e fantasia (indotta anche da un veleno che ingurgita di nascosto) si riduce però con l’avvicinarsi del finale, sino all’annunciato epilogo.

Anja Plaschg è responsabile anche della colonna sonora, che trova in comunione con la fotografia una tensione costante. Colto il giusto tono, a metà tra le due tremende parentesi che incorniciano la storia, The devil’s bath sembra però fermarsi; perso nello stesso labirinto della sua protagonista.Serve l’efferato epilogo per ritrovare quel terrore profondo che ne ha caratterizzato i primi momenti. La cultura rurale, fatta di tempi scanditi, dedizione al lavoro e fede, si ripropone giorno per giorno, instaurando un “loop” che nella mente della povera Agnes, giunta da un villagio diverso, concorrerà alla sua malattia. Un morbo di satana, secondo le leggi divine a cui nemmeno lei può sottrarsi. Il background storico, rievocato a schermo anche nel finale, è la grande forza di The devil’s bath, un horror che però non è “solo un film”. Per quanto agghiacciante, soprattutto per l’adattamento della gente del tempo a una disumanizzazione fuori scala nei confronti del destino di queste povere donne, i registi garantiscono: “Ci siamo attenuti ai testi, non c’era bisogno di inventare nulla”.

20 Febbraio 2024

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