CANNES – Una caldissima estate a Marsiglia. Su un balcone di una vivace zona residenziale sono stese mutande e intimo femminile di tutte le forme e colori. È l’appartamento di tre giovani donne, inquiline e amiche per la pelle: le protagoniste di The Balconettes (Le donne al balcone), l’opera seconda di Noémie Merlant, presentato nella sezione Midnight Screenings del 77° Festival di Cannes e dal 20 marzo al cinema con Officine Ubu. Abbiamo Nicole (Sanda Codreanu), scrittrice e sognatrice, Ruby (Souheila Yacoub), provocante e trasgressiva camgirl, ed Élise (la stessa Merlant), attrice alle prese con l’ansia lavorativa e con una difficile relazione a distanza. Tre caratteri molto diversi ma uniti da una forte amicizia, una fiducia reciproca e una spensierata voglia di vivere, nonostante le difficoltà, il caldo e un mondo che sembra inesorabilmente ostile alle donne.
L’attrice resa celebre con Ritratto della giovane in fiamme collabora ancora con la regista e sceneggiatrice Céline Sciamma per realizzare un film molto più ambizioso della sua opera prima a bassissimo budget. Le donne al balcone è un lungometraggio che sperimenta e che fonde i generi per scavare a fondo nel tema della violenza di genere. “Volevo iniziare con un desiderio potente e liberatorio, per poi andare verso l’umorismo, il sangue, l’eccesso, l’assurdità e la fantasia. Quindi, una combinazione di generi che riflette la molteplicità dei messaggi: denuncia l’oppressione, sotto diverse forme, ma anche, soprattutto, di promozione onirica di una liberazione”.
Le donne al balcone sembra portarci nella vita spensierata di tre amiche, con i loro piccoli problemi quotidiani, come la fascinazione di Nicole per il misterioso vicino della finestra di fronte. Quando le protagoniste avranno l’occasione di entrare nel suo appartamento, però, tutto cambierà improvvisamente. La commedia al femminile si lascia ibridare dal genere – l’horror e il fantasy – senza mai dimenticare il suo tono umoristico. L’autrice d’altronde ci aveva avvertito, con una prima scena che al suo interno ha tutti gli elementi che caratterizzeranno il film: una donna che uccide il marito violento colpendolo in uno schizzo di sangue e poi soffocandolo sotto il peso delle sue natiche. “Avevamo in mente i thriller coreani e giapponesi, come The Strangers e The Chaser di Na Hong-jin, o il trash di Ichi the Killer di Takashi Miike. – rivela Merlant – O anche Tarantino e Death Proof, o tutti i gorefest che guardavo da bambina con mia sorella e film di fantasmi, soprattutto quelli che spingono verso la commedia”.
Il tema affrontato è esplicito e sfrutta le dinamiche di genere per renderlo ancora più chiaro. Le donne al balcone è un manifesto femminista contro la cosiddetta “cultura dello stupro”, quella condizione che rende molti uomini potenziali molestatori o violentatori, e che, soprattutto, impedisce agli stessi di rendersene conto. L’atteggiamento autoassolutorio degli abuser è l’elemento che Merlant critica più apertamente, con il dichiarato intento di aprire gli occhi agli uomini, qualora fossero ancora incapaci di rendersi conto, ad esempio, che un “no” è sempre un “no” o che un atteggiamento provocante non vuol dire per forza una disponibilità sessuale.
Per questo motivo, nel film non esistono personaggi maschili positivi, ma tutti appaiono – chi più e chi meno – caratterizzati dall’incapacità di guardare alle donne al di fuori del proprio desiderio sessuale. Una scelta “estrema” che potrebbe far storcere il naso ad alcuni, ma che l’autrice giustifica efficacemente: “Questo film parla di abusi e violentatori e non volevo cadere nella trappola del politicamente corretto di avere uno o più personaggi maschili che compensano tutti gli altri. Nel mio film gli abusatori e gli oppressori non lasciano spazio a nessun altro, in senso letterale e figurato. Dove sono ‘i bravi ragazzi’ che hanno spazio e non ne abusano? Forse è questa la domanda che voglio indurre”.
“Volevo anche dimostrare che, come nel caso del marito di Élise, Paul, è possibile ci sia amore, confusione e un genuino tentativo di comprendere, anche se rimane bloccato in un modello di comportamento tossico. – continua Merlant – Nonostante tutto, mi piace l’idea che possa essere un personaggio simpatico in alcuni frangenti. Perché gli autori di abusi non sono sempre mostri – e spesso non lo sono, in effetti – ma esseri umani che possono avere dei lati positivi. Spero che la gente capisca perché una volta Élise era in grado di immaginare la vita insieme a lui e perché lo amava. E perché semplicemente a un certo punto non può più”.
Con la sua opera seconda, Noémie Merlant compone un lungometraggio dal forte impatto, coerente dal punto di vista tematico e sorprendente da quello narrativo. Conferma il suo estro anche come attrice, facendosi affiancare da due interpreti che, come lei, sanno variare i registri, riuscendo nell’impresa non scontata di veicolare un messaggio delicato senza mai dimenticare la leggerezza della commedia e la catarsi dell’orrore.
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