VENEZIA – ”Quando ho girato Brazil, nel 1984, volevo dipingere l’immagine del mondo in cui pensavo stessimo vivendo allora. The Zero Theorem è uno sguardo sul mondo in cui penso di vivere ora. La sceneggiatura di Pat Rushin mi ha intrigato per le molte idee esistenziali racchiuse nel suo divertente e toccante racconto filosofico. Per esempio: che cosa dà significato alla nostra vita, che cosa ci procura gioia? Si può essere soli nel nostro mondo sempre più connesso e ristretto? Questo mondo è sotto controllo o è semplicemente caotico?”. Terry Gilliam torna alla Mostra, dove vinse il Leone d’argento con La leggenda del re pescatore nel 1991, con una favola tetra e disperata, ma coloratissima, sul futuro prossimo venturo, ”il futuro che ci ha sorpassato e imprigionato”, come dice lui. Una sorta di Brazil trent’anni dopo in cui Christoph Waltz, l’attore austriaco vincitore di due Oscar, diventato star internazionale grazie a Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria e Django, col cranio completamente rasato è Qohen Leth, un genio informatico affetto da tutte le fobie del mondo, che parla solo col plurale majestatis, mangia solo cibi insapore e non tollera di essere toccato da nessuno, figurarsi fare sesso.
Fantascienza low budget (set a Bucarest, in Romania, costumi cuciti con stoffe cinesi a buon mercato che facevano sudare tutto il cast, Matt Damon compreso) per ricostruire un avvenire simile al presente in una Londra in cui la pubblicità (con insegne parlanti) domina su tutto e reclamizza tutto (compresa la Chiesa di Batman redentore), dove le videocamere di controllo sono ovunque, dove anche la pizza è parlante e gli psicoanalisti hanno uno studio virtuale. Come in un incubo orwelliano, alle spalle di tutto questo c’è una multinazionale del benessere esistenziale che escogita sistemi per rendere la vita sopportabile e “felice” (in realtà sempre più manipolabile). Qohen, che non sopporta più la routine del suo impiego e vive in una chiesa sconsacrata in beckettiana attesa di una fantomatica telefonata dall’altissimo, viene incaricato dal supermanager Matt Damon di lavorare al progetto più arduo, quello del segreto dell’esistenza e del senso assoluto, il “teorema zero”. Una formula (sembra il tetris) che riduce tutta la realtà a nulla, ma che beffa continuamente i programmatori, compreso il giovane e talentuoso Bob, figlio del capo. Contemporaneamente Leth rompe il suo guscio protettivo, irretito dalla seduttiva call girl Mélanie Thierry che lo porta in un universo virtuale dove le reciproche fantasie sembrano diventare realtà. ”La visione di questo film racconta di come ormai oggi abbiamo accesso a tutto, ma viviamo separati gli uni dagli altri e comunichiamo solo tramite internet”, sintetizza il 73enne regista americano, ex Monty Python. “Non giudico la tecnologia buona o cattiva, perché anche la primavera araba è stata possibile grazie a internet. Ma credo che le persone si nascondano attraverso gli alias in un mondo in cui per essere accettati bisogna essere simili a un Dio”. L’amore, aggiunge Gilliam, ”è una cosa pericolosa nella società ed è quello che teme Leth. Un personaggio che ha già provato una separazione sulla sua pelle e conosce il dolore. In un mondo virtuale attenzione all’amore: non ve lo raccomando!”
In concorso a Venezia 70, il film, che arriva quattro anni dopo Parnassus (con vari progetti annunciati e non andati in porto), ha raccolto applausi ma anche qualche perplessità. Gilliam nega che The Zero Theorem sia il capitolo finale di una trilogia iniziata con Brazil e proseguita con L’esercito delle 12 scimmie, ma osserva come ”il futuro di Brazil è divenuto realtà” e chiama il pubblico in suo aiuto per capire cosa sta facendo. ”Non mi considero né un nerd né un geek, eppure così va il mondo, tra relazioni virtuali e persone nascoste dietro alias: siamo sedotti e catturati dal pc, e proprio i giovani che si consumano con internet capiranno al volo questo film”. Aggiunge David Thewlis, un altro degli interpreti: ”Ci hanno detto che la tecnologia migliorerà le nostre vite, ma è sempre più difficile capire dove ci stia portando”, mentre Mélanie Thierry parla di ”solitudine, perdita di umanità: non sono a mio agio con il computer, non sono su Twitter né su Facebook, è un mondo lontano da me, e mi dà fastidio che ci si possa nascondere dietro lo schermo”. In fondo The Zero Theorem, con il suo caos sgangherato e farraginoso ma non senza qualche colpo di coda geniale, ha l’ambizione di parlare nientemeno che dell’esistenza (on non esistenza) di Dio. E il finale sembra alludere a una vita dopo la morte. ”Dico solo che Qohen arriva ad avere più controllo del mondo, reale o virtuale che sia. Mannaggia, non dovevo dire nemmeno questo? Vorrei che del finale mi parlaste voi stasera a cena”.
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