Dalle proiezioni dei festival pseudointellettuali in cui difendeva il lavoro del Silvio Orlando produttore in Il caimano, alle dune del deserto della Libia dove veste i panni di un generale italiano nella guerra d’Africa del ’41, quella raccontata da Le rose del deserto. Sta crescendo la vocazione d’attore di Tatti Sanguineti, critico cinematografico che dopo libri, tv e radio ha scoperto che il cinema non gli piace solo analizzarlo ma anche farlo, e farlo bene. Tanto da essere scritturato dal maestro della Commedia all’italiana per il suo nuovo film.
Da quanto conosce Monicelli?
Non saprei dire la prima volta che ho incontrato Mario Monicelli. E stato tanto tempo fa e da allora lui mi onora della sua amicizia. Abbiamo fatto insieme anche tante puntate di “Hollywood Party” e ne era sempre contento. Gli piace il modo in cui lo spalleggio e per quanto mi riguarda stare con Mario è come avere un fremito vitale.
Come è nata l’avventura de Le rose del deserto per lei?
Mario aveva pensato a questo personaggio già quando lo avevo portato a Palermo a camminare in un cimitero prima di partire per la Tunisia. Un rito apotropaico con annessa richiesta al sindaco Veltroni di farsi tumulare lì se fosse caduto tra le dune di Tobruk. Per chi conosce i film di Monicelli sa che sono sempre pieni di funerali e cimiteri da Amici Miei a quelli di Totò. Perciò ricoprire il ruolo di un generale con il pallino della sepoltura mi ha fatto sentire onoratissimo perché so che per lui si tratta di un leitmotiv. Ho incarnato un suo tormentone.
Vista la conoscenza stretta tra voi è stato necessario un provino?
L’unica cosa che abbiamo provato sono state le uniformi. La costumista ha capito subito che non mi si poteva imbellettare, trasformare. Mario voleva solo che mi facessi crescere la barba, per il resto ho giocato molto sulla mia fisicità. Anzi ho uno scheletro malconcio e una camminata sbilenca che ho accentuato ancora di più riempiendomi le tasche di pezzetti di legno. Un’andatura strana che a Mario piaceva e che cercava di far risultare più spontanea tirandomi degli scherzi sul set: nessuno mi aiutava mai a scendere dalle jeep, dai carri armati e poi il sidecar partiva sempre prima del dovuto. Quell’aggeggio non aveva nemmeno il sedile imbottito. Ho temuto più volte di dover aggiungere anche un coccige rotto alle mie mille fratture e storture. Ma questo faceva parte del gioco. Del resto Mario mi ha voluto per la mia incoscienza e per la mia emissione polmonare.
Si è ispirato a qualcuno per il suo generale?
Assolutamente no. Ho letto approfonditamente gli scritti di Mario Tobino e fatto ricerche sulla guerra d’Africa e la figura di Rommell, ma ho deciso di metterci del mio su tutti i fronti. Ad esempio è stata una mia idea quella di far parlare il personaggio con dei vocativi o delle citazioni latine che nel copione non erano previste. Sono molto gigione ed esibizionista perciò mi sono messo in gioco fino all’ultimo. Del resto fare un film con Monicelli è un regalo che la vita ti fa raramente. E’ come trovare un portafogli per strada. Le rose del deserto poi è un capolavoro dell’arte d’arrangiarsi con le sue 7 settimane e mezzo di riprese, 5 ore totali di girato, scorpioni, tempeste di sabbia e quant’altro. E nonostante tutti gli imprevisti Mario non ha sgarrato di un giorno rispettando tutte le scadenze.
Il caimano e questo film sono episodi sporadici o in futuro la vedremo ancora davanti la macchina da presa?
Mi piacerebbe molto continuare. E’ divertente e rappresenta una sfida che uno scavezzacollo come me non può rifiutare. Vorrei recitare di nuovo per Moretti e in un film di Michele Massimo Tarantini. Se sono piaciuto davvero a qualcuno poi spero che mi chiami. L’ho detto anche a Michele Placido: se sono bravo allora chiamami per Romanzo criminale 2. Potrei fare un ragioniere ligure affiliato alla banda della Magliana.
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