Sydney Pollack, documentarista per caso


Si dichiara documentarista per caso, Sydney Pollack, e difficilmente ripeterà l’esperienza di Frank Gehry creatore di sogni, il film che ha dedicato all’architetto del Guggenheim di Bilbao. In realtà confessa è stato un trucco per cercare di capire come funzionano il talento e l’invenzione, anche perché sono molte le segrete simmetrie che accomunano la costruzione di un edificio e di un film. Un progetto girato in poche giornate ma a mesi e anni di distanza, accolto poi a Cannes 2006 e acquistato in Italia da Valerio De Paolis della Bim, che lo distribuirà come qualsiasi altro film, in 12 copie a partire dal 30 marzo, nonostante le strettoie del mercato. Considero Pollack uno dei più grandi autori viventi, dice De Paolis. Gli dà ora ragione la retrospettiva che il Museo del cinema di Torino dedica all’autore de I tre giorni del condor, in collaborazione con il Festival di Alba, dove il cineasta Usa sarà protagonista di un omaggio e terrà una lezione di cinema, mentre Luciano Barisone e Leonardo Gambini hanno curato per le edizioni Voir Trade un volume di studi.

 

Come le è venuto in mente di girare il suo primo documentario a 70 anni?

La prima volta che ho visto il museo Guggenheim di Bilbao mi ha provocato un emozione enorme. Non so nulla di architettura e questa emozione mi ha incuriosito. Così quando più tardi mi hanno invitato a girare un film su Gehry, anche se all’inizio ho opposto resistenza, mi è tornata quella curiosità. Frank è un amico e mi sono sempre chiesto come quell’ometto avesse potuto costruire edifici tanto grandi e imponenti.

 

Gehry, nel fim, confessa di invidiare i pittori. E lei?

Invidio un sacco di gente, ma soprattutto gli scrittori. Se rinasco, mi piacerebbe essere uno scrittore. Credo di provare verso gli scrittori qualcosa di simile a quello che Frank prova per i pittori. La regia, come l’architettura, è qualcosa di collettivo, mentre pittura e letteratura sono arti individuali e in un certo senso più pure.

 

Le piacerebbe continuare a dedicarsi al documentario?

Non mi sento particolarmente dotato. Dopo quello realizzato molte altre persone, stuzzicate nella loro vanità, mi hanno chiesto di fare un film su di loro, ma la cosa non mi interessa. Avrei potuto dedicare un film a Kieslowski o Kubrick, che sono miei miti, ma ormai è troppo tardi per entrambi.

 

Lei comunque continua a lavorare tantissimo. Due anni fa ha girato The Interpreter e adesso vorrebbe fare la versione americana del film tedesco che ha vinto l’Oscar.

Sono socio di Anthony Minghella e con lui abbiamo diversi progetti. Stiamo producendo il nuovo film del regista di Il diavolo veste Prada, David Frankel, il nuovo film di Stephen Daldry, quello di The Hours, su sceneggiatura di David Hare, e una serie per la tv su una donna poliziotto in Botswana. Come regista sto mettendo in piedi per il canale americano via cavo, HBO, una specie di docu-drama sulla storia del conteggio delle schede dei voti in Florida dopo l’elezione di Bush. E poi è vero stiamo cercando un’idea per rifare La vita degli altri, ma è difficilissimo, quasi impossibile perché la storia è radicata nel contesto della Germania dell’Est.

 

Perché ci ha messo 5 anni a girare il film su Frank Gehry?

Eravamo entrambi impegnatissimi, così abbiamo lavorato ogni volta che avevamo un giorno libero, anche a distanza di un anno, anche per un paio di ore. L’unica cosa organizzata a tavolino è stata la troupe per filmare gli edifici di Gehry in varie parti del mondo: Bilbao, Berlino, Barcellona, Dundee.

 

Lei ogni tanto continua a recitare come agli inizi della sua carriera.

Recito per un unico motivo, spiare gli altri registi. In genere un regista non ti fa nemmeno entrare sul set, marcano il territorio come gli animali. Allora se Woody Allen o Stanley Kubrick mi proponevano un ruolo io ci andavo di corsa. Recentemente ho recitato in un opera prima con George Clooney che si intitola Michael Clayton e che forse sarà a Venezia.

 

Qual è l’attore più creativo che ha incrociato?

Come faccio a non citare Robert Redford, con lui ho fatto 7 film. Siamo stati ragazzi insieme negli anni ’60 e poi siamo stati più grandi negli anni ’70, poi siamo diventati vecchi e poi ancora più vecchi, e abbiamo sempre raccontato la nostra generazione. Forse adesso dovremmo fermarci.

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27 Marzo 2007

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