Storia di un mattatore


N.Manfredi Se ci chiedessero chi realmente sia stato Saturnino (in arte Nino) Manfredi, la risposta che verrebbe da dare così d’istinto, sarebbe: “È stato uno dei quattro mattatori della commedia all’italiana”. Sarà questa la carta d’identità, che gli consentirà di entrare con buon rilievo nella storia del cinema? È probabile. Gassman, Manfredi, Sordi, Tognazzi: eccoli in ordine alfabetico i quattro moschettieri. Veramente ci sarebbe un quinto, ma in gonnella: Monica Vitti, che ha raggiunto l’apice della popolarità proprio nella commedia di costume. I registi li hanno divisi in due ruoli ben distinti, vittime della società ma per due diversi motivi: perché travolti dalla società stessa, alla quale cercavano di adeguarsi, i primi; perché s’illudevano di tenerla in pugno i secondi. Maurizio Grande, l’autore di Abiti nuziali e biglietti di banca, che resta a tutt’oggi il testo più approfondito sulla commedia nel cinema italiano, ha definito questi atteggiamenti due modi opposti di rilevare lo scollamento esistente fra il soggetto, le sue aspettative e i risultati effettivi. Nel primo caso lo scollamento parrebbe originato da un eccesso di consonanza fra l’individuo e i valori del gruppo (sarebbe il caso dei personaggi di solito interpretati da Manfredi e Tognazzi); nel secondo (quello dei personaggi di Gassman e Sordi) da un difetto isterico di dissonanza, derivante da una incapacità caparbia all’adattamento, ribaltata in vanteria millantatrice”.
Ceravamo tanto amati Da L’impiegato (1959) di Gianni Puccini a C’eravamo tanto amati (1975) di Ettore Scola, Manfredi è stato in larga parte fedele a questo schema, talvolta incontrandosi col suo compagno di sventura Tognazzi, come nello splendido Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, talvolta smontando col proprio fallimento le illusioni del “millantatore” Gassman, come nel sottovalutato Il gaucho di Dino Risi, dove l’incontro fra Gassman e Manfredi nello squallido appartamento di quest’ultimo in Argentina dà luogo a una scena di alta scuola, che meriterebbe di essere inclusa in una ideale antologia delle grandi prove attoriali.
Poi Manfredi cambiò registro, abbordò anche personaggi sinistri, quale il capofamiglia di Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Scola e il travet, che finisce per subire il fascino della pistola, ne Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo, fratello minore del personaggio interpretato due anni prima da Sordi in Un borghese piccolo piccolo (1977) di Mario Monicelli. Ma è anche vero che verso la fine degli anni 70 i tempi erano cambiati, la società italiana si era incarognita e non invitava più all’ironia.
C’è però un particolare di non poco conto che differenzia Manfredi dagli altri tre suoi compagni di strada. Gassman ventenne, un anno dopo aver conseguito la maturità classica, spinto dalla madre è già iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica. Sordi quindicenne o giù di lì, già si divide tra l’avanspettacolo, il teatro di rivista, il cinema e il doppiaggio di Stanlio e Ollio. Tognazzi, alla fine della guerra, reduce da una burrascosa, giovanile esperienza nelle file della Repubblica di Salò, partecipa a una selezione di attori dilettanti, che lo lancia nell’avanspettacolo. Per il frusinate Manfredi, invece l’iter è del tutto diverso: anche lui, come Gassman, frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica; ma lo fa da adulto, diplomandosi a ventisei anni e dopo essersi laureato in giurisprudenza. Inoltre, il suo debutto nel cinema viene dopo una copiosa attività teatrale in compagnie primarie e sotto la guida di registi famosi. Ma il teatro evidentemente non è il suo elemento, se a un certo punto egli opta per la rivista e per il cinema. Lo confesserà in una intervista rilasciata negli anni ’70 a Gian Luigi Rondi, dove spiegherà, a titolo di esempio, il motivo che lo indusse a piantare una star della regia qual’era Giorgio Strehler: “Perché con lui recitavamo tutti allo stesso modo, senza personalità, pietruzze in un mosaico. Ho preferito andarmene con le sorelle Nava, con gran scandalo di tutti, senza la protezione di Shakespeare o di Pirandello, pronto ogni sera, in palcoscenico, a inventare quello che bisognava inventare, a litigare con il pubblico, a modificare le battute, diventato finalmente me stesso”.” Ma, si premurava di aggiungere, con l’esperienza teatrale alle spalle, che mi aveva permesso di stare in scena senza avere più la preoccupazione di dove mettere le mani, perché il mio corpo avevo imparato a dominarlo, a farne quello che volevo. E, quando ho ben capito tutto questo, sono passato al cinema”.
Cè dunque nella carriera di Manfredi un travaglio ignoto agli altri tre, un travaglio che si ravvisa anche nelle sue tre ambiziose prove di regia: ne L’avventura di un soldato, episodio del film L’amore difficile (1962), traduzione per sole immagini di un racconto di Calvino; nel fortunatissimo Per grazia ricevuta (1973); in Nudo di donna (1981), dove sostituì in cabina di regia Alberto Lattuada, che mal sopportava le continue ingerenze dell’attore in quelle mansioni che egli reputava di sua esclusiva competenza.
Per farla breve, nell’esercizio della propria professione Manfredi non era affatto simile ai suoi personaggi: era aggressivo, addirittura prepotente, difficile comunque a prendere per il verso giusto. Forse anche per questo motivo, abituato com’era a trasformare perennemente la sua professione in una sfida, Manfredi non subì lo choc, che investì i suoi compagni, alla inevitabile caduta di popolarità. Seppe riciclarsi in televisione, non disdegnando neppure il ruolo di testimonal pubblicitario. I travagli trascorsi lo avevano in certo senso vaccinato.

04 Giugno 2004

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