NEW YORK – Stefano Mordini è uno dei registi ospiti del N.I.C.E. USA 2013, manifestazione – tenutasi tra New York, San Francisco e in questi giorni Philadelphia – con la quale Viviana del Bianco e Grazia Santini da anni portano il cinema italiano di autori emergenti in giro per il mondo. Nei prossimi mesi la kermesse sbarcherà in Cina (Pechino e Macao) e in Russia (Mosca e San Pietroburgo, dal 10 al 18 aprile 2014), ma per ora ci ha dato l’opportunità di incontrare da vicino un protagonista tanto apprezzato dalla critica quanto penalizzato dalla distribuzione col rischio di non farlo arrivare al grande pubblico. Per ora…
Partiamo dal N.I.C.E., una manifestazione interessante, utile a diffondere il nostro cinema nel mondo. Che impressione ne riporta a casa?
Ho trovato un pubblico molto curioso di carpire alcune dinamiche italiane. In molti, non solo italiani, avevano anche letto il libro da cui è tratto il mio film Acciaio, ed erano molto incuriositi di vedere cinema italiano.
Quale cinema italiano? Quello di modelli e stereotipi ripetuti o qualcosa di nuovo?
Credo che tutto quello che arriva sia percepito come nuovo. Ma devo dire che per la prima volta non mi sono ritrovato a parlare della tradizione della commedia italiana degli anni ’60… Evidentemente è anche un pubblico diverso da quello che c’era anni fa, anche se poi a San Francisco ha vinto una commedia. Questo gusto deve esserci ancora, ma in realtà non so cosa si possa definire ‘nuovo’, se non cronologicamente. C’era molta più sperimentazione trent’anni fa che adesso..
Questa trasferta statunitense le ha fatto venire voglia di esplorare una realtà diversa?
San Francisco, a meno che non si faccia animazione per la Pixar, forse non è il posto giusto per iniziare a lavorare in America. Ma ho comprato i diritti di un libro americano di Christopher Coake, You Came Back (in Italia uscito come Sei tornato), per cui nelle mie prospettive c’è quella di lavorare negli States, o in Canada, visto che la storia è molto invernale, sotto la neve. Intanto a febbraio tornerò a Los Angeles.
Sarà questo il suo prossimo progetto?
No, il prossimo è Pericle il Nero, tratto dal libro di Giuseppe Ferrandino. Abbiamo finito di scriverlo da poco e adesso inizieremo a pensare al cast, ma non ho ancora in mente nessuno, O meglio, ho una idea in testa, ma è ancora tutta da verificare. Per You Came Back, avendolo appena acquistato, invece abbiamo tre anni di tempo per svilupparlo e realizzarlo. E’ un film che mi sembra possibile, una storia che riconosco, ma molto anglosassone come tipo di mercato. Se ci riuscirò, il che è tutto da vedere, c’è l’intenzione di andare oltreoceano.
Una scelta che coincide con quella di tanti, che si spostano fuori dai confini nazionali proprio in questo momento storico?
Credo ci sia la possibilità di fare dell’ottimo cinema in Italia, se ci svegliamo un poco e diventiamo più agili nell’affrontare i progetti senza necessariamente cercare a ogni costo, prima di ogni altra cosa, un mercato di riferimento, che invece va un po’ stravolto. Siamo ripiegati sul mercato, e questo offre ben poco. Bisogna trovare altre strade, soprattutto di coproduzione. Io, proprio per questo progetto, lavorerò con l’estero. In Italia siamo in troppi e i fondi sono pochi.
E’ possibile muoversi al di là dei condizionamenti del mercato?
Non lo so, bisognerebbe chiederlo a qualcuno che si è costruito una carriera più solida della mia, che sono un outsider. Io cerco di portare a casa i film in cui credo; ma c’è chi ha più possibilità. Anche se in questo momento è più difficile anche per loro. Il problema è a livello distributivo. Ci sono poche sale per i film che escono. Io ho sempre trovato spazio in grandi festival: Berlino, Venezia, anche con i documentari… Ma il rapporto con la sala è un rapporto difficile, che in questo momento paga errori di tutta la filiera: dal costo del film, al modo di distribuirlo… Serve il coraggio di portare avanti dei progetti che non siano necessariamente standardizzati, mentre invece secondo me c’è una idea di mercato che corre dietro all’ultimo successo. Basta spostarsi in Francia per vedere come in realtà anni di lavoro sul cinema abbiano creato un pubblico colto e capace di vedere prodotti completamente diversi tra loro.
Manca questo tipo di spinta all’educazione dall’alto?
Basta pensare a un elemento molto preciso… Il fondo ministeriale finanzia film di interesse nazionale culturale, che però per essere prodotti hanno comunque bisogno di un broadcaster, e in Italia ci sono solo Medusa e la Rai. Adesso Medusa non produce più, per cui resta solo la Rai ed è ovvio che tutti confluiscano lì. In questo momento la Rai ha un grosso potere, e una grande responsabilità. Ma siamo un Paese che oggi non ha la forza di rischiare. Le responsabilità sono di tutti, ovviamente, anche degli autori stessi, ma se pensiamo che i film di interesse nazionale culturale non si vedono su Raiuno, Raidue o Raitre, questo fa capire quanto questo materiale non venga considerato come ‘di valore’. Quanto alla rete, come possibile canale, non so bene cosa dire… Io guardo i film dappertutto, al cinema, in tv, in rete, ho bisogno di sentirmi raccontare delle storie, però se me la racconti per cinque minuti – che è il tempo medio di attenzione che si riserva a un certo tipo di prodotto, secondo alcuni studi – a me non interessa, sono di una generazione che ha bisogno di farsi affascinare. In italia i film si producono; tra tanti che non ce la fanno, ci sono altri che ce la fanno. Io sono venuto dalla provincia e, anche se con molta fatica, vivo di questo. Ma per fare una vera ricerca, per svilupparsi, bisognerebbe riuscire a produrre più di un film ogni quattro anni. Non puoi fare cosi tanta fatica per produrne uno, arrivi al film che sei distrutto. E questo un po’ si sente nel cinema italiano: pesantezza, paura… e dalle paure non si ottiene nulla, non c’è niente da fare. Bisogna avere coraggio, in modo sensato e intelligente.
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