BARI – Hitler c’è, ma non si vede, non in carne e ossa, ma il suo volere, il suo potere, l’inquietudine che suscita sì, ci sono, eccome, e dettano le ore, i giorni e le esistenze, anche in un luogo remoto della Prussia Orientale, tra il novembre del ’43 e lo stesso periodo dell’anno a seguire: lì, lontano da Berlino dove si crede che il Fürer sia, “sette giovani e sane donne tedesche” sono state costrette a adempiere a “un compito delicato”, correndo il rischio di “morire ogni giorno”, a fronte di poter però aver garantiti pranzo e cena quotidiani e un corrispettivo di 200 marchi mensili.
Loro sono Le assaggiatrici, protagoniste del film di Silvio Soldini che apre il Bif&st 2025: dal romanzo di Rosella Postorino, nato sulla scorta della rivelazione Margot Wölk che, 95enne, nel 2012 aveva rivelato pubblicamente di essere una di loro, una delle donne assoldate dal regime nazista a consumare i pasti che poi sarebbero stati destinati a Hitler affinché, prima di arrivare alla sua bocca, ci fosse certezza che nessun alimento fosse semmai avvelenato.
Elisa Schlott è Rosa Sauer, la protagonista principale, colei che dalla città arriva nella casa prussiana dei suoceri, mentre il marito Gregor è al fronte, e d’improvviso viene precettata: con lei – tra le altre – anche la nipote del pastore della Chiesa del posto, che poi la vicenda rivelerà non sia esattamente chi dichiara d’essere in principio.
La paura è il sentimento che s’innerva in tutte le trame delle esistenze raccontate, emozione buia essenza del Nazismo, con la figura di Rosa che ondeggia tra coerenza e incoerenza, tra terrore e audacia, non senza che sangue innocente continui a scorrere in quello spaccato di Storia mondiale.
Soldini, nella sua filmografia ricorre un’anima femminile, con protagoniste alle prese con scelte difficili e percorsi di emancipazione. In che modo Le assaggiatrici s’inserisce in questa via e cosa ha significato raccontare questa storia in particolare?
Sì, s’inserisce a pieno, anche se non l’ho scritto io, non ne sarei stato capace: una delle cose che più mi affascinava dell’idea di essere regista del film era poter lavorare con queste sette giovani donne e mettere in scena questa cosa tremenda, accaduta un’ottantina di anni fa, per cui sono state prelevate, messe intorno a un tavolo, per ripetere ogni giorno questo rito tremendo di assaggiare del cibo che poteva essere avvelenato, una specie di roulette russa. Il personaggio principale, Rosa, è molto bello, denso, pieno di contraddizioni.
La storia nasce dal racconto di una donna reale, Margot Wölk, che solo una dozzina di anni fa ha svelato pubblicamente la sua ‘identità’: la confessione di questa persona, soprattutto perché fatta in un tempo che corrisponde alla fine della vita, quanto l’ha toccata e guidata?
Credo sia stata molto uno spirito guida per Postorino, per scrivere il romanzo: a me è stata tradotta l’intervista in tedesco della signora e ho ritrovato raccontasse più o meno le cose che Rosella ha utilizzato per dare un impianto al libro, dopodiché lei ha proceduto di fantasia. Rosa non è Margot, ma rimane l’idea – che credo sia stato quello che ha affascinato di più l’autrice – di queste donne che tutti i giorni dovevano recarsi ad assaggiare, costrette tutti i giorni a una precisa condizione psicologica, sia come vittime ma, in un certo senso, anche colpevoli, perché lo facevano senza dire ‘no’; c’è tanta gente che ha detto ‘no’, ma è molto difficile, soprattutto quando si è in guerra, c’è la fame, c’è la povertà, mentre loro infine mangiavano, e anche bene, e dopo un po’ ci si adatta a tutto; siamo esseri adattabili a qualsiasi cosa e loro si sono adattate a questo.
Dal romanzo di Rosella Postorino, quali sono stati gli elementi della storia che ha sentito l’urgenza di enfatizzare o reinterpretare?
La cosa capita man mano è stata che, per ragioni produttive e di minutaggio, il film necessitasse di essere tagliato rispetto al libro, concentrandomi sull’intimità del racconto, sul microcosmo di donne, senza disperdermi in digressioni su altri personaggi presenti nel libro: la concentrazione del film gli dà una forza e una potenza che forse non avrebbe se fosse più sfilacciato. Rimane il fatto che ci sia un fuori campo, che era necessario sentire, che corrisponde alla guerra, all’oppressione, alla dittatura, e mi ricordo di essermi chiesto: ‘come facciamo a sentire tutto questo?’, perché non è una storia ambientata in un momento qualsiasi, quindi anche attraverso la regia ho cercato di far sentire la violenza nell’aria.
Infatti, lavorare su un periodo storico così carico di significati – la Germania nazista – comporta anche un confronto con la memoria e l’etica della rappresentazione, e lei ha scelto una prospettiva intima, quasi claustrofobica.
È complesso… perché quando si mette in piedi una produzione del genere tutti i reparti sono importantissimi, in particolare Scenografia, Costumi, Trucco, messi davvero sotto pressione, perché bisogna costruire un mondo che non c’è più; come la Fotografia: è fondamentale. Mi sembra che ci fosse un comune intento tra tutti, che ha permesso una compattezza, perché ogni film di finzione inventa un mondo che io volevo fosse il più vicino possibile alla realtà, non volevo che lo spettatore sentisse senso di falsità o lontananza, cose che a me capita di sentire talvolta nei film in costume. Mi piaceva che fosse un film quasi contemporaneo, in cui lo spettatore potesse identificarsi per seguire il percorso di Rosa e dei personaggi: da un lato c’era un’idea di regia molto precisa, doveva essere tale soprattutto nella sala assaggi, perché volevo che anche la simmetricità le inscatolasse in qualche modo, mantenendo però all’interno della simmetricità la vita, volevo che loro fossero delle persone, tenendo sempre presente che gli attori siano l’unica vita che c’è in un film, per cui devono vivere sullo schermo; per fortuna queste sette attrici tedesche sono fantastiche, abbiamo lavorato benissimo insieme, facendo un paio di settimane di prove, per cui quando siamo arrivati alle scene intorno al tavolo, che temevo molto perché sembrano tutte uguali, loro erano talmente preparate e pronte che è risultato molto bello.
Sempre restando sulle donne, nei suoi film ha spesso dato grande importanza ai loro volti, ai silenzi, ai piccoli gesti e ai dettagli: anche qui lo sguardo femminile è cruciale. Ci sono state scelte stilistiche e estetiche specifiche per trasmettere senso di angoscia e precarietà?
Sì, come ci sono state scelte molto precise di trucco riguardo alle attrici, per farle diventare personaggi reali e, per fortuna, tutte loro erano pronte a far qualsiasi cosa per il film, con grande generosità, senza paura di imbruttirsi, che a volte succede, soprattutto con le attrici; quando però stai interpretando un ruolo, stai dando vita a un personaggio, trovo un po’ assurdo il discorso, e loro si sono lasciate fare di tutto, anzi proponendo, come l’idea di avere una voglia sul collo da parte di una di loro perché le ricordava la nonna, mentre ad altre due/tre abbiamo messo dentature finte perché i loro denti erano troppo belli per il tempo della guerra; sono tutte piccole cose ma molto importanti per dare verità al racconto.
Come nel romanzo, lei anche al cinema sceglie di non mostrare mai Hitler in persona: sappiamo esserci, lo percepiamo, è invadente, ma non si presenta mai.
Hitler bisognava far sentire fosse lì, non lontano da lì. C’è una sua fotografia a casa dei suoceri, c’è un dipinto che lo ritrae nella sala, ogni tanto ‘si vede’ e poi si sente la sua voce alla radio, dopo l’attentato, ma non ho mai avuto l’esigenza di mostralo, perché avrei dovuto entrare nella tana del lupo e il racconto si sarebbe spostato, mentre essere chiusi nell’intimità di quel micro cosmo dà la forza al film.
Nel film la tensione tra sopravvivenza e colpa è centrale. Come ha lavorato con le attrici – in particolare Rosa e la nipote del pastore – per restituire il complesso universo emotivo delle protagoniste?
C’è stato tanto lavoro prima delle riprese per cercare di capire chi fossero queste due persone, inventando una serie di storie a cui loro potessero aggrapparsi: è importante per un attore perché così da qualsiasi dialogo può uscire qualcosa in più, non necessariamente una parola ma un modo con cui dice le cose. Loro stesse mi hanno fatto tante proposte, ciascuna ha preso in carico il proprio personaggio lavorando anche da sola, condividendo poi: tutti insieme abbiamo cercato di dare una verità a tutte loro, cosa fondamentale perché tutte insieme sono come una piccola orchestra intorno a quel tavolo, è come se ciascuna fosse uno strumento diverso che suona la propria musica che però insieme agli altri deve funzionare in armonia.
Le assaggiatrici è stato venduto in oltre 50 Paesi tra cui USA, UK, Germania e Giappone e il 10% delle copie italiane esce al cinema in lingua originale, sottotitolate, così spiega Vision Distribution che lo distribuisce.
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