MILANO – Se il Natale fosse un colore, per Camille Griffin sarebbe noir. Ma anche rosso, e non per quello che si possa banalmente immaginare. Il rosso, infatti, è il colore di una pillola. Mortale.
L’apocalisse incombe, l’umanità è prossima a essere annientata da una nube di gas tossico e così s’avvicina l’ultimo Natale prima della fine. Le note frizzanti delle canzoni della stagione natalizia e una festa a regola d’arte per stare l’ultima volta insieme, sì, ma un consesso che non significa solo scaldare reciprocamente i cuori e stringersi in un affettuoso abbraccio, ma più che altro in uno eterno, per scelta, decidendo di porre fine alla vita prima che la vita decida di farlo lei: lo Stato britannico ha ammesso che i propri cittadini possano assumere la suddetta pillola rossa per anticipare un atroce ultimo atto contratti dal dolore.
Nell (Keira Knightley) e Simon (Matthew Goode) si preparano ad accogliere i loro amici – tra cui Sophie, il personaggio di Rose-Lili Depp – nella loro raffinata residenza di campagna, ma Art (un eccellente Roman Griffin David), il loro figlio (insieme ad altre due gemelli), un ragazzino, ha lo spirito del rivoluzionario, non accetta una soluzione “indolore”, appartiene a quella fetta di esseri umani che non sono schiavi del potere ma piuttosto – pur di poter praticare il proprio libero arbitrio fino in fondo, a costo di tutto – procedono dritti sulla propria strada, seppur consci che alla fine si possa comunque precipitare.
Il ping pong tra Art e Kitty, “una piccola Biancaneve natalizia” dalla lingua svelta, almeno quanto lui, figlia di una coppia di amici, è una delle sequenze più franche e esplicite del film, durante la cena con la tavolata tutt’intorno. Lei, certa che il “nostro governo” voglia essere d’aiuto, gli spiattella in faccia, con un effetto verbale splatter abbastanza efficace, che “le mie budella non diventeranno una poltiglia di sangue”, immagine a perfetto contrasto con l’abitino immacolato, il colletto ci cigno e il fiocchettone rosso tra i capelli; ma Art non ci sta, e ribatte: “Come fai a saperlo?”. “Per lo meno il nostro governo ha un piano” non molla di rispondere lei. “Non è un piano. È un fallimento” sentenzia lui.
Uno “contro tutti”, o forse no: perché – se non una ribelle – un’alleata del punto di vista di Art c’è tra gli adulti, è Sophie, che confessa proprio al bambino che no, nemmeno lei prenderà la pillola: aspetta un bebé e “non voglio uccidere il mio bambino”.
Camille Griffin – il cui film partecipa al Noir in Festival Fuori Concorso, in anteprima italiana – debutta con un forte senso di attualità insito nel proprio racconto: l’eco delle questioni pandemiche, la Natura che si ribella, la logica apparente sinonimo di salvezza ma altrettanto di ubbidienza. Il tutto, in questa Silent Night, avvolto dalla suggestione luccicante e malinconica del Natale, megafono emotivo magistrale.
C’è il luccichio, c’è la felicità nell’aria, c’è il profumo dei dolci, il vischio, le paillettes e le parole d’amore, e continua a esserci la musica, il suono vivace del Natale: Griffin conferma che la linea degli ingredienti della commedia ci siano, così come – progredendo – anche quelli meno luminosi, più gravosi e affacciati sulla fine, ma se la linea non pecca, la messa in opera e l’impiattamento sono un po’ meno saporiti della premessa: la mano della regista non ha un forte tratto personale, non fa sentire una zampata di individualità, la scrittura si sente un po’ pachidermica nell’avanzare, e anche l’umorismo, che non manca, però non punge come sarebbe stato efficace.
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